«Signora Moretti» iniziò il pubblico ministero, «può raccontare alla corte cosa ha sentito la sera del 29 ottobre?»
Feci un lungo respiro. Non guardai gli avvocati, né il giudice. Guardai Enrico.
«Li ho sentiti pianificare di uccidere suo figlio» dissi, la voce chiara e ferma. «Dicevano che Andrea le pagava. Centomila euro a testa. Per… per far sparire Nico. Per far sembrare tutto un incidente. Così Andrea sarebbe diventato l’unico erede.»
Un mormorio attraversò l’aula. Andrea rise. Una risata secca, brutta.
«Obiezione!» sbraitò il suo avvocato. «Sono chiacchiere! Fantasie! Le parole disperate e deliranti di una donna che ha aggredito il suo datore di lavoro e rubato un bambino!»
«Accolta» disse il giudice, annoiato. «Signora Moretti, ha qualche prova di quello che sostiene?»
«Mente!» sbottò Andrea. «È una donna delle pulizie! Chi mai le crederà?»
«Signor Conti, silenzio!» lo fulminò il giudice.
«Vostro Onore» la voce di Rebecca riempì l’aula come un coltello che taglia l’aria. Era in fondo, appoggiata al bastone. «La difesa desidera presentare nuove prove, corroborate.»
Il tribunale tacque. Il volto di Andrea impallidì di colpo.
«E lei chi sarebbe?» chiese il giudice, irritato.
«Rebecca Rinaldi, Vostro Onore. Ex legale della famiglia Conti, oggi difendo la vera vittima di questo caso.» Avanzò, il passo claudicante. «Ho prove che la signora Moretti non è stata l’unica ad essere aggredita dagli uomini di Andrea Conti. E ho i messaggi che dimostrano il suo complotto.»
Per l’ora seguente, l’aula rimase senza fiato.
I messaggi cancellati apparvero su un grande schermo. I bonifici alle tate. Poi un file audio nuovo: un messaggio vocale lasciato da Andrea al “contatto” di Rebecca dopo l’imboscata nell’appartamento sicuro. «È morta, vero? Dimmi che l’avvocata è morta.»
Andrea Conti sembrava un uomo che si guarda affogare da uno specchio.
Il pubblico ministero si voltò verso le tate. «Signorina De Luca. È vero?»
Chiara, la più giovane, crollò. Un singhiozzo le squarciò la gola. «È vero!» urlò, indicando Andrea. «È tutto vero! Ci ha costrette! Ha detto… ha detto che ci avrebbe rovinato! Giulia… lei non ha rapito nessuno. L’ha salvato! L’ha salvato da lui!»
Il martelletto del giudice picchiò sul banco. Confusione. Mormorii. Urla.
Quando arrivò il verdetto, fu rapido.
Andrea Conti fu riconosciuto colpevole su tutti i capi di imputazione: cospirazione per omicidio, tentato omicidio (per l’attacco a Rebecca) e una lunga serie di reati finanziari. La condanna: venticinque anni, con possibilità di revisione solo dopo quindici.
Tania e Chiara ebbero pene ridotte per la collaborazione.
Per me, però, il verdetto era solo una parola. La vera libertà arrivò quando uscii da quel tribunale.
Le telecamere c’erano ancora, ma il tono era diverso. Le domande non erano più accuse.
«Giulia, come si sente?»
«Giulia, cosa farà adesso?»
Avevo Nico in braccio. Enrico… mi aveva chiesto lui di tenerlo. Il bambino, ormai un po’ più grandicello, aveva riso, protendendo le braccia verso di me.
Lo strinsi forte e guardai le telecamere. «La verità conta» dissi, con la voce che tremava. «Non importa chi sei, o quanto ti senti piccola. La verità conta.»
Enrico si mise accanto a me. Non guardò i giornalisti. Guardò me. Mi posò una mano sulla spalla, un gesto semplice, pubblico.
«La signora Moretti ha dimostrato più coraggio e integrità di chiunque io abbia mai conosciuto» disse, con la voce rotta. «La mia azienda… la mia famiglia… l’hanno tradita. E abbiamo tradito mio figlio. Questo finisce oggi.»
La folla esplose in applausi e mormorii.
Settimane dopo, ero di nuovo nel mio piccolo appartamento in periferia. Mi sembrava… sbagliato. Troppo silenzioso. Mia madre, Maria, finalmente era tornata a casa dall’ospedale, l’intervento pagato da un “benefattore anonimo” che ero certa fosse Enrico.
«Ce l’hai fatta, amore» sussurrò, stringendomi la mano. «Hai dimostrato che avevi ragione.»
Quella sera Enrico venne a trovarci. Niente giacca e cravatta. Solo jeans e un maglione. Teneva in mano una cartellina.
«So che hai detto che non vuoi carità» iniziò, impacciato. «Questo non lo è. È giustizia. Ho creato un fondo. Cinquecentomila euro. Sono… arretrati. Per i servizi che hai reso.»
«Enrico, non posso…»
«È per te e per tua madre» disse. «Perché siate al sicuro. Davvero.» Esitò. «E… c’è un’altra cosa.»
Mi porse un’altra cartellina. Questa aveva il logo della società di famiglia.
«È un’offerta» disse piano. «Una vera. Voglio che tu sia la persona che si occupa di Nico a tempo pieno. La sua… la sua tutrice, se mai mi succedesse qualcosa. Non perché ti devo qualcosa. Ma perché con te lui è al sicuro. Perché… perché mi fido di te. E quasi non mi fido più di nessun altro.»
Esitai. «Enrico, quel mondo… la villa, i soldi… non è il mio mondo.»
«Lo so» rispose, i suoi occhi azzurri che si fissarono nei miei. «Non è più nemmeno il mio. Non quello che Andrea ha cercato di costruire. Aiutami a farne nascere uno nuovo. Uno che appartenga a noi. A Nico.»
Lo guardai — un uomo che aveva perso la moglie, tradito dal fratello, quasi privato del figlio. E per la prima volta in vita mia non mi sentii invisibile. Mi sentii… vista.
Accettai.
Non fu una favola. Il primo anno fu difficile. La villa era ancora piena di fantasmi. Frequentai corsi serali di educazione infantile. Enrico andò in terapia. Imparammo, piano piano, a convivere con quello che era successo.
E lentamente, una nuova musica riempì quelle stanze. Risate. Le mie. Quelle di Nico. E, un po’ alla volta, quelle di Enrico.
Un pomeriggio, un anno dopo, Enrico mi trovò seduta in veranda. Nico dormiva sulle mie ginocchia.
«Ti capita mai di pensare a quella notte?» mi chiese.
«Ogni giorno» risposi, onesta. «Ma non con paura. Non più.»
«Hai cambiato la mia vita, Giulia» disse.
«L’abbiamo cambiata a vicenda» risposi.
Mi prese la mano, il pollice che accarezzò le nocche. Non era il tocco di un datore di lavoro. Era il tocco di un alleato. Di un amico. E forse, un giorno, di qualcosa di più.
La mattina seguente installarono una piccola targa vicino alle siepi del giardino, proprio dove ero caduta quella notte. Era semplice, in ottone.
Per chi ha scelto la compassione invece della paura.
Il mio nome non c’era. Non serviva. Io sapevo chi ero. E, finalmente, anche il mondo iniziava a saperlo.






