«Si tolga quel gilet da motociclista, oppure non prenderà mai in braccio sua figlia.»
La direttrice amministrativa del reparto stava davanti alla porta della Terapia Intensiva Neonatale, le braccia conserte. Dietro il vetro vedevo le incubatrici. In una di quelle, attaccata ai tubicini, c’era mia figlia nata troppo presto.
«Sono il padre,» riuscii a dire, con l’acqua che gocciolava dal mio giubbotto di pelle sul pavimento lucido. «È nata tre ore fa. Mi hanno detto che forse non arriva a stanotte.»
«Non conciato così, qui non entra,» rispose fredda. «Questo è un ospedale pediatrico, non un raduno di motociclisti. Abbiamo delle regole.»
Mia figlia era nata alla ventiseiesima settimana. Ottocentocinquanta grammi. Polmoni immaturi. I medici avevano parlato di cinquanta per cento di possibilità.
Mia moglie Elena era ancora addormentata dopo un cesareo d’urgenza. E quella donna in tailleur non mi lasciava passare la porta.
«Quello è un gilet di un moto club,» disse indicando la mia pelle. «Nel nostro regolamento è equiparato a “colori di banda”.»
Non le interessava che avessi guidato tre ore sotto il diluvio dopo la telefonata dell’ospedale. Non le interessava che mia figlia potesse morire senza che io l’avessi mai tenuta in braccio.
Quello che lei non sapeva era che ogni toppa cucita su quel gilet l’avevo guadagnata in Afghanistan. Ero stato infermiere militare. Tre missioni. Decorazioni al valore. Anni passati a cercare di tenere in vita gli altri.
La chiamata arrivò alle due di notte.
«Signor Conti? Sua moglie è in sala operatoria. La bambina sta nascendo. Deve venire subito.»
Tre ore. Questa era la distanza fra il paesino di montagna dove vivo e il grande ospedale di città. Tre ore di curve, pioggia, camion, lampioni sfocati, a velocità che avrebbero fatto inorridire qualunque agente della stradale.
Ma quando la gravidanza perfetta di tua moglie diventa improvvisamente un’emergenza, i limiti di velocità smettono di esistere.
Elena non doveva partorire per ancora quattordici settimane.
Mi chiamo Luca Conti. Quarantadue anni. Da sette anni faccio parte di un moto club di ex militari che si chiama “Fratelli in Sella”. Non è una “banda”. Siamo padri, operai, impiegati, pensionati. Ma per certe persone, se porti la pelle e le toppe, sei automaticamente un delinquente.
Sono sposato con Elena da tre anni. Quella bambina era il nostro miracolo. Tre aborti spontanei prima di lei. Fecondazione assistita che ci ha svuotato il conto in banca e le energie. L’ultima speranza.
E adesso arrivava troppo presto.
Sono entrato in ospedale alle cinque del mattino, ancora col casco in mano, i pantaloni bagnati, il giubbotto di pelle e il mio gilet con tutte le toppe.
Non ho pensato a cambiarmi. Non mi interessava l’aspetto. Volevo solo trovare la mia famiglia.
«Terapia Intensiva Neonatale, terzo piano,» disse l’infermiera al banco dopo aver controllato al computer. «Sua figlia è viva. Per ora è tutto quello che so.»
Terzo piano. L’ascensore mi sembrava troppo lento. Ho preso le scale, tre gradini alla volta. Gli stivali che rimbombavano nel vano, il cuore che batteva più forte di in un qualunque scontro in missione.
Le porte della TIN erano chiuse a chiave elettronica. Una tastiera numerica, un vetro spesso. Un’infermiera dall’interno mi vide e stava già per premere il pulsante per farmi entrare.
Poi è comparsa lei.
Lessi il nome sul cartellino prima di vedere bene il volto: «Dott.ssa R. Bianchi – Amministrazione». Tailleur grigio, capelli tirati all’indietro così stretti che sembravano tendere la pelle del viso, cartellina in mano come fosse uno scudo.
«Mi scusi,» disse, mettendosi tra me e la porta. «Lì non può entrare.»
«Mia figlia è là dentro. È nata tre ore fa.»
«Non vestito così.»
Guardai il mio gilet. Pelle nera. Toppe colorate. Tutta la mia storia cucita lì sopra. Un distintivo da infermiere militare, le stellette di missione, la toppa del nostro club di veterani, la bandiera italiana.
«Questo è un reparto pediatrico,» continuò la Bianchi. «Abbiamo standard di abbigliamento. Nessun simbolo di bande o gruppi potenzialmente violenti.»
«Bande?» dissi. «Signora, queste sono onorificenze militari. Sono stato in missione per questo Paese.»
«Io vedo un giubbotto da moto club. E nel nostro regolamento il moto club rientra nella voce “gruppi potenzialmente problematici”. Si tolga il gilet o esca dall’ospedale.»
Attraverso il vetro vedevo le incubatrici. Corpicini minuscoli, circondati da tubi e lucine. Uno di quelli era mia figlia.
«Mia figlia sta morendo lì dentro,» sussurrai.
«Sta ricevendo tutte le cure possibili,» rispose lei, con voce piatta. «Ma lei non entrerà nel mio reparto con quell’abbigliamento da…»
Si fermò un attimo, ma lo disse lo stesso.
«Da teppista.»
Teppista.
Tre missioni in Afghanistan. Diciassette soldati salvati, bambini tolti dalle macerie dopo un attentato, compagni riportati indietro a pezzi. Il sangue degli altri che mi era rimasto addosso. Notte dopo notte. E adesso questa donna mi chiamava teppista perché portavo un gilet di pelle.
«Per favore,» dissi. Non lo so nemmeno io come uscì quella parola. «La prego. Mi faccia entrare un attimo. Poi me lo tolgo. Solo… lasci che la veda. Voglio sapere se respira, se…»
«No,» tagliò corto lei. «O si toglie il gilet adesso, o chiamo la sicurezza.»
Il telefono mi vibrò in tasca. Elena.
«Luca? Dove sei? Non mi dicono niente della bambina. Ho paura.»
«Sono proprio fuori dalla TIN,» dissi. «Tra un attimo entro da lei.»
Ma non era vero. Perché la dottoressa Bianchi aveva piantato i suoi tacchi davanti a quella porta come se stesse difendendo l’intero sistema sanitario nazionale.
Stavo allungando la mano verso la zip del gilet. Ogni toppa rifletteva le luci al neon del corridoio. Ognuna era un ricordo. Un compagno. Un sacrificio.
«Signor Conti?»
Mi voltai.
La riconobbi subito: era la dottoressa Laura Rossi, la neonatologa. L’avevamo conosciuta sei mesi prima, quando ci avevano fatto visitare la TIN “perché non si sa mai”. Allora ci era sembrata quasi un’esagerazione prudente.
«Sua figlia sta facendo fatica,» disse a bassa voce. «Grave distress respiratorio. È attaccata al ventilatore ma… lei dovrebbe essere con lei.»
«Non entra finché non si leva il giubbotto da gang,» intervenne la Bianchi.
La dottoressa Rossi guardò il mio gilet. Non un’occhiata veloce: lo guardò davvero. Lesse le toppe.
«Dottoressa Bianchi, sono decorazioni militari,» disse calma. «È un veterano.»
«C’è anche una toppa di un moto club. E per il regolamento quello rientra nelle categorie vietate. Il regolamento vale per tutti.»
«Il regolamento parla di gruppi criminali,» ribatté la Rossi. «Non di associazioni di ex militari che fanno beneficenza e raccolte fondi.»
«Moto club è moto club.»
La dottoressa Rossi sospirò. Si voltò verso di me.
«Mi dispiace, Luca. Devo tornare dentro. Appena posso le faccio avere notizie.»
«La bambina… ha un nome,» dissi. Non so perché. Forse perché volevo che non fosse solo “un caso grave” nella loro lista. «Si chiama Giulia. Come mia nonna. Ce la farà?»
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