La direttrice d’ospedale mi ha vietato di vedere mia figlia morente finché non ho difeso il mio gilet da motociclista

«Le prossime ore sono decisive,» rispose. «Tornerò da lei.»

Scomparve dietro la porta chiusa. Dietro al vetro dove mia figlia combatteva per restare al mondo. Dove avrei dovuto essere io.

Mi sono lasciato scivolare per terra, appoggiato al muro. Non mi fidavo più delle gambe. Tre ore di adrenalina, di pioggia, di paura. E all’improvviso il vuoto. La possibilità concreta che mia figlia morisse e che io non fossi lì quando sarebbe successo.

Presi il telefono.

«Marco? Sono Luca. Ho bisogno di te all’ospedale pediatrico di città. Subito… Sì. Porta anche gli altri, chi può.»

La Bianchi fece un mezzo sorriso.

«Sta chiamando la sua banda? Avviserò volentieri la sicurezza.»

«Non una banda, signora,» risposi piano. «Fratelli. Gente che sa cosa vuol dire essere giudicati solo dall’aspetto invece che da quello che hanno fatto per gli altri.»

Lei si allontanò, probabilmente per andare davvero a chiamare la vigilanza. Benissimo. Che venissero pure.

Chiamai la stanza di Elena.

«Amore, Giulia sta lottando. È forte. I medici sono con lei.»

«E tu perché non sei con lei?» chiese Elena, con un filo di voce.

«C’è… una complicazione con il regolamento del reparto. La sto sistemando.»

«Luca, ti prego. Lei ha bisogno di suo padre.»

«Lo so, amore. Lo so.»

Quaranta minuti dopo cominciarono ad arrivare.

Il primo fu Marco, sessantotto anni, veterano del Libano e dei Balcani. Aveva guidato due ore senza fermarsi. Il suo gilet era quasi interamente coperto di toppe, vecchie di decenni, consumate ma brillanti.

Poi arrivò Tommaso, ex militare che aveva perso una gamba in missione. La protesi non gli impediva di salire e scendere dalla moto con un’agilità che faceva sorridere i bambini ai semafori.

Poi Sandro, che aveva fatto Afghanistan e Iraq, e più onorificenze di quante ne potesse cucire sul giubbotto.

Alle sette del mattino, dodici membri dei “Fratelli in Sella” erano in quel corridoio. Tutti con i loro gilet. Tutti con i loro segni di servizio. Le loro storie. I loro dolori.

La Bianchi tornò con tre addetti alla sicurezza.

«Signori, devo chiedervi di andare via dall’area del reparto,» disse. «Stare qui è motivo di disturbo.»

«Signora,» disse Marco, con voce calma ma ferma, «la bambina di Luca è lì dentro. Nata alla ventiseiesima settimana. Sta combattendo per vivere. Lei sta tenendo il padre fuori da quella porta per delle toppe che rappresentano il nostro servizio a questo Paese.»

«Le regole…» cominciò lei.

«Io ho fatto nascere bambini nei villaggi in Libano,» la interruppe Marco. «In elicottero, nei corridoi d’ospedale senza luce. Sa di cosa avevano bisogno quei neonati, più delle nostre bende e dei nostri farmaci? Delle mani dei genitori. Della loro voce. Di sentirsi toccati. Quella bambina ha bisogno di suo padre.»

«La norma sul vestiario…» insisté lei.

«È sbagliata,» disse un’altra voce.

Ci voltammo tutti.

Era il professor De Santis, primario di cardiologia. Io non lo conoscevo, ma Sandro sì.

«Professore?» fece Sandro, stupito. «Che ci fa qui?»

«Mi hanno detto che eri qui, e che con te c’era un certo Luca in “divisa sbagliata”. Ho pensato che vi sarebbe servito qualcuno con un po’ di peso nei corridoi giusti.»

Si voltò verso la Bianchi.

«Dottoressa, lei sa chi è Sandro? È l’uomo che mi ha tirato fuori da un blindato in fiamme in Afghanistan. Mi ha portato sulle spalle fino all’elicottero. Se sono vivo e lavoro in questo ospedale è anche grazie a lui.»

La Bianchi impallidì appena.

«E quest’uomo,» continuò il professore indicando me, «è Luca Conti. Ho controllato la sua scheda. Infermiere militare, decorato, medaglia al valore. Ha salvato più vite lui sui campi di battaglia di quante io ne abbia ancora operate in sala.»

«Il regolamento è chiaro,» insisté la Bianchi, quasi a memoria. «Niente simboli riconducibili a gruppi…»

«So benissimo cosa dice, quel regolamento,» la interruppe il professore. «L’ho scritto io, insieme a lei. Serve a tenere fuori spacciatori, gente che entra a intimidire, gruppi che hanno precedenti penali. Non veterani che usano la moto per raccogliere fondi per il reparto di oncoematologia.»

La porta della TIN si aprì. La dottoressa Rossi, il volto teso.

«Luca, i valori di ossigeno di Giulia stanno scendendo,» disse rapidamente. «Potremmo doverla intubare più a fondo. Se vuole tenerla in braccio prima… deve venire adesso.»

Mi alzai in piedi. Guardai la Bianchi.

«Può chiamare la sicurezza, la polizia, il ministero della salute,» dissi. «Ma io adesso vado da mia figlia.»

La Bianchi fece un passo verso la tastiera.

«Il gilet resta fuori,» disse. «Questo è il compromesso.»

Stavo di nuovo per aprire la zip. Poi mi fermai. Guardai le toppe. Ognuna un giuramento. Ognuna un pezzo di chi ero. Di ciò che avevo fatto, nel bene e nel male.

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