La direttrice d’ospedale mi ha vietato di vedere mia figlia morente finché non ho difeso il mio gilet da motociclista

«No,» dissi piano. «Non resta fuori.»

«Allora lei non entra.»

«Bianchi,» disse il professore, e stavolta la sua voce era gelida. «Fra trenta secondi sto chiamando il direttore generale e il presidente del consiglio di amministrazione. Fra loro c’è anche il generale in pensione Ferri. Suo nipote è vivo grazie a questa TIN. Vuole spiegargli lei perché sta discriminando veterani decorati e separando un padre da una neonata in fin di vita?»

La Bianchi aprì la bocca. Poi la richiuse. Ancora.

«Questo è… un abuso…» mormorò.

«L’abuso,» disse il professore, «è quello che sta facendo lei a questa famiglia. Adesso basta. Luca, vada.»

La tastiera emise un bip. La porta si sbloccò.

Passai attraverso. Con il gilet addosso. I miei fratelli mi guardavano. Nessuno parlò. Non ce n’era bisogno.

Giulia era minuscola.

Nell’incubatrice sembrava un passerotto caduto dal nido. La pelle quasi trasparente. Le manine grandi come le falangi del mio mignolo. Tubicini ovunque, il ventilatore che respirava al posto suo.

«Ciao, piccola guerriera,» sussurrai. «Papà è arrivato.»

L’infermiera, una ragazza poco più che ventenne, mi sorrise dietro la mascherina.

«Può toccarla,» disse. «Infili la mano in questo oblò. Sentire la sua mano le farà bene.»

Infilai la mano nell’apertura dell’incubatrice. Sfiorai un dito di Giulia. Le mie dita sembravano tronchi d’albero accanto a quelle.

E lei strinse.

Quella creatura di neanche un chilo mi prese il dito con tutta la forza che aveva.

«È la prima volta che reagisce così al contatto,» disse l’infermiera, con gli occhi lucidi. «Sa che è suo padre.»

Rimasi lì sei ore. A parlare con Giulia. Le raccontavo dei giri in moto in collina, dei tramonti sul lago, di sua madre che è la donna più forte che conosca. Le spiegavo che viene da una lunga fila di testardi, e che la testardaggine le sarebbe servita.

A mezzogiorno portarono Elena su una sedia a rotelle. Era la prima volta che vedeva nostra figlia. Abbiamo pianto insieme. Pregato insieme. Sperato insieme.

I fratelli rimasero in corridoio. Tutto il giorno. A turno. Uno parlava con la sicurezza, uno portava caffè alle infermiere, uno controllava che nessuno provasse a rimandarmi fuori.

Alle tre del pomeriggio, i valori di ossigeno di Giulia cominciarono a salire. Una piccola vittoria.

Alle cinque aprì gli occhi. Due puntini scuri, lucidi, che cercavano qualcosa nel vuoto. Una vittoria un po’ più grande.

Alle sette di sera il professore De Santis tornò, stavolta con il direttore generale e un signore anziano in giacca e cravatta che riconobbi dalle fotografie nell’atrio: il generale Ferri.

Si chiusero in ufficio con la Bianchi. Non sentivamo tutto, ma la voce del generale rimbombava nel corridoio.

«…inaccettabile… discriminazione… vergogna… immediata sospensione…»

Quella sera stessa la dottoressa Bianchi se ne andò, con una scatola di cartone tra le braccia. Nessun discorso. Nessuna scena. Solo una donna che capiva di aver oltrepassato un limite.

Il mattino dopo presentaron il nuovo responsabile amministrativo. Capelli grigi, sguardo stanco ma gentile.

«Sono stato nell’esercito tanti anni fa,» disse stringendomi la mano. «Non porto più divise né gilet, ma riconosco chi ha dato più di quanto avrebbe dovuto. Grazie per il suo servizio, signor Conti. E ha una figlia meravigliosa.»

Giulia rimase in TIN ottantasette giorni. E io ogni giorno ero lì. Con il mio gilet. Nessuno osò più dire niente.

I fratelli si davano il cambio. Marco portò un piccolo orsetto di peluche con una mini giacchetta di pelle cucita da sua moglie. Tommaso veniva quando poteva, si sedeva in corridoio e suonava la chitarra piano, quasi un sussurro, e la musica arrivava fino alle incubatrici come una ninna nanna. Sandro organizzò una raccolta fondi per le famiglie che dovevano dormire in macchina perché non potevano permettersi un letto nelle pensioni vicino all’ospedale.

Al sessantaduesimo giorno, Giulia si strappò da sola il tubicino del respiro. I medici lo chiamarono miracolo. Io lo chiamai “cocciutaggine Conti”.

Al settantacinquesimo giorno, Elena la tenne in braccio senza fili, solo con una sonda per il latte. La guardava come se le avessero messo il cuore fuori dal petto.

All’ottantesimo giorno le diedi il primo biberon. Le ci volle una vita per finire quei pochi millilitri. Per noi fu come brindare a Capodanno.

All’ottantasettesimo giorno, finalmente, ce la portarono in una piccola culla per dimetterla. Cinque chili e sei etti di combattente.

I fratelli ci accompagnarono a casa. Quindici moto, motori quasi al minimo per non spaventare i bambini nelle stanze. Il giro più lento che avessimo mai fatto. Ma anche il più importante.

È successo diciotto mesi fa.

Giulia oggi sta benissimo. Sedici chili di energia e volontà. Gattona più veloce di quanto io riesca a starle dietro. Dice “papà”, “mamma” e, lo giuro, qualcosa che assomiglia molto a “moto”.

La settimana scorsa siamo tornati in ospedale per un controllo di routine. Il nuovo direttore ci stava aspettando nell’atrio.

«Signor Conti,» disse, «volevo che lo sapesse da me. Abbiamo modificato ufficialmente il regolamento sull’abbigliamento. Le toppe militari e dei gruppi di veterani sono esplicitamente consentite. L’abbiamo chiamata “Regola di Giulia”.»

La Regola di Giulia.

Mia figlia ha una norma d’ospedale che porta il suo nome. Perché dodici uomini con la pelle e le cicatrici hanno deciso di rimanere in un corridoio. Perché un primario si è ricordato chi gli aveva salvato la vita anni fa. Perché a volte difendere ciò che è giusto significa rifiutare di togliersi un gilet.

Ma soprattutto perché una bambina di ottocentocinquanta grammi aveva bisogno di suo padre. E nessun regolamento, nessun pregiudizio, nessuna paura dell’apparenza mi avrebbe tenuto lontano da lei.

La dottoressa Bianchi lavora ancora in ambito amministrativo, dicono, ma in un ufficio lontano dai reparti, dove si occupa di scartoffie e parcheggi. Non ha più il potere di decidere chi può o non può prendere in braccio suo figlio.

A volte il karma indossa un completo elegante.

A volte, invece, indossa la pelle consumata e le toppe cucite a mano.

Giulia adora il mio gilet. Ci passa sopra le dita, segue i contorni delle toppe, indica la bandierina, ride vedendo i teschi un po’ ridicoli che un amico ha disegnato. Prova perfino a mordere la medaglietta di metallo.

Un giorno le spiegherò cosa significa ogni toppa. Le parlerò degli uomini che non sono tornati, e di quelli che ci sono ma portano addosso un peso invisibile. Le racconterò dei fratelli che hanno passato un’intera giornata in un corridoio solo per lei.

Ma soprattutto le racconterò il momento in cui mi ha afferrato il dito. Ottocentocinquanta grammi di bambina che stringevano duecento di uomo adulto. Entrambi decisi a non mollare.

Le infermiere lo hanno chiamato “bonding”, legame affettivo precoce.

Io l’ho chiamato amore.

I miei fratelli lo hanno chiamato famiglia.

E la Bianchi? Forse quel giorno ha imparato la differenza tra una banda e una fratellanza.

Perché le bande portano i colori per intimidire.

I fratelli portano le toppe per ricordare storie.

E tutte le toppe sul mio gilet raccontano la stessa storia: non lasciamo indietro nessuno.

Non in Afghanistan.

Non in un corridoio di TIN.

Mai.

Giulia compirà due anni il mese prossimo. I fratelli stanno organizzando una festa. Quindici moto in fila, quindici guerrieri che quella mattina difesero una bambina che ancora non sapeva neanche respirare da sola.

Elena è di nuovo incinta. Partorirà tra sei mesi. Un’altra femmina.

La chiameremo Speranza.

Perché è quello che abbiamo ricevuto quel giorno in corridoio: speranza che Giulia sopravvivesse, speranza che il buonsenso vincesse sul pregiudizio, speranza che ogni tanto, davvero, i “buoni” riescano a cambiare qualcosa.

E se qualcuno, in futuro, avrà ancora da ridire sul mio gilet in quell’ospedale?

Dovrà spiegarlo a Giulia.

Perché mia figlia non è solo una bambina che ama le moto.

Nel cuore, anche se non porta ancora la pelle, lei ne fa già parte.

Della nostra strada.

Della nostra famiglia.

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