La Gentilezza che Rimane: Storie di Animali, Ferite Nascoste e Mani che Non Mollano

La seconda cosa che impari, dopo aver capito che non puoi salvarli tutti, è che il mondo non si ferma quando tu ti rompi dentro.

Il telefono continua a squillare. Le porte continuano ad aprirsi.

E le storie continuano ad arrivare.

Il giorno dopo l’uomo con la borsa di tela, tornò la ragazza con il grembiule da cameriera.

Quella dei quattrocento euro.

Quella dell’affitto in ritardo e del cane vecchio sul tavolo d’acciaio.

Era seduta in sala d’attesa con le mani intrecciate, come se stesse pregando.

Il cane, adesso, dormiva in una coperta blu, il respiro corto ma ancora presente.

Mi guardò come se stessi per pronunciare una sentenza.

«Allora?» sussurrò. «Ho chiesto un prestito a una collega. Posso arrivare a seicento. Ma… lei cosa farebbe, se fosse il suo cane?»

Questa è la domanda che mi perseguita da quarant’anni.

Non “quanto costa?”.

Non “quante probabilità ci sono?”.

Ma: “se fosse il suo?”.

Mi tolsi gli occhiali, li appoggiai sul tavolo.

«Se fosse il mio cane,» dissi piano, «gli darei una possibilità. Non una guerra. Una possibilità dignitosa.»

Le spiegai: una terapia più semplice, niente ricovero di tre giorni, niente esami da rivista scientifica.

Una dose di realtà in mezzo a un mare di preventivi.

«Non posso prometterle che vivrà vecchio e sano,» continuai. «Posso solo prometterle che non lo lasceremo soffrire per niente. E che ogni euro che spenderà avrà un senso. Ma la decisione è sua. Sempre sua.»

Lei annuì, gli occhi lucidi.

«Facciamolo,» disse infine. «Lui è tutto quello che ho.»

In quel momento ho capito una cosa che avrei dovuto sapere da tempo:

per molti dei miei clienti, il cane non è “come un figlio”.

È meglio di molte persone che li hanno lasciati soli.

Abbiamo iniziato la terapia.

Le infermiere lavoravano in silenzio, come una piccola orchestra: flebo, antibiotici, analgesici.

Io mi muovevo tra i monitor e il respiro faticoso del cane, con quella vecchia sensazione nelle mani:

quella di quando stai cercando di trattenere l’acqua con le dita.

Tre giorni dopo, il cane si alzò da solo.

Barcollando, ma in piedi.

La ragazza pianse in mezzo alla sala d’attesa, stringendolo al guinzaglio come se le potesse scappare in paradiso da un momento all’altro.

Mi lasciò una busta.

Dentro c’erano i seicento euro, contati uno a uno, e un biglietto:

“Se un giorno qualcuno verrà qui senza soldi, usi questi per lui. Così il debito con il mondo è pagato.”

Ho messo il biglietto nel cassetto in basso dell’archivio di ferro.

Tra i collari logori e i disegni di bambini.

È lì che tengo le prove che, ogni tanto, facciamo ancora le cose giuste.

Non tutte le storie finiscono così.

Alcune non finiscono affatto. Si fermano.

Come quella di Marta, la collega giovane che è arrivata in clinica cinque anni fa.

Era bravissima. Occhi chiari, mani ferme, una pazienza infinita con i clienti più difficili.

Sapeva spiegare una diagnosi di insufficienza renale come se fosse una ricetta di cucina.

Ma dopo la terza causa minacciata per “errore medico” perché un gatto di diciassette anni non era sopravvissuto a un’operazione disperata, qualcosa si è incrinato anche in lei.

Una sera, mentre spegnevamo le luci, mi disse:

«Sai, a volte ho l’impressione che i social abbiano convinto la gente che la morte sia una scelta sbagliata del medico.»

Risi, amaramente.

«Non è la morte che non accettano,» risposi. «È l’idea di non avere il controllo.»

Marta oggi lavora part-time. Fa anche altro, lontano dai camici e dai monitor.

La capisco. Questo mestiere non è fatto solo di amore per gli animali.

È fatto anche di stomaco per la burocrazia, per la rabbia, per le aspettative impossibili.

C’è però una cosa che non è cambiata, né con i telefonini, né con le recensioni online.

Il momento in cui un bambino entra dalla porta.

Qualche mese fa è arrivato un ragazzino di dieci anni.

Aveva i capelli arruffati, lo zaino ancora sulle spalle e un coniglio stretto al petto come un cuscino.

Dietro di lui, una madre esausta, con le occhiaie e la giacca svolazzante.

«Dottore,» disse il bambino senza respirare, «non mangia più da ieri. È colpa mia? L’ho fatto uscire sul balcone e forse ha preso freddo.»

Lo feci sedere.

Visita, temperatura, auscultazione.

Il coniglio aveva un’infezione respiratoria, niente di irreparabile se preso in tempo.

Mi chinai verso il bambino.

«Non è colpa tua,» dissi. «Gli animali si ammalano, proprio come noi. La cosa importante è che tu sia venuto subito.»

I suoi occhi si riempirono di lacrime grosse, silenziose.

«Allora… possiamo aggiustarlo?»

Mi colpì quel verbo: aggiustare.

Come se il coniglio fosse un giocattolo rotto.

Come se io avessi un cacciavite magico in tasca.

«Ci proviamo insieme,» risposi. «Io con le medicine, tu con le carezze. È un lavoro di squadra.»

Tre settimane dopo mi mandarono una foto: il coniglio, sano e arrogante, seduto sul tavolo della cucina come un re.

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