Sotto, una frase scritta dal bambino:
«Grazie per aver aggiustato il mio migliore amico.»
Quella foto è finita, indovinate dove?
Nel cassetto in basso.
A volte mi chiedono quando andrò in pensione.
Ho l’età. Ho le spalle curve, le ginocchia che scricchiolano e una collezione di cicatrici sui polsi lasciate da gatti poco convinti.
La verità è che non lo so.
Perché non si va in pensione da questo tipo di intimità.
Ogni volta che accompagno qualcuno all’ultima gentilezza, torno a casa più stanco e più vuoto.
Mi tolgo il camice, faccio la doccia, ma l’odore dell’ospedale resta nelle narici.
E, qualche sera, mi siedo in cucina con la luce spenta e mi chiedo se non sia diventato troppo.
Troppo dolore. Troppo peso. Troppa responsabilità.
Poi, il mattino dopo, entro in studio e trovo una lettera infilata sotto la porta.
Una calligrafia tremolante, una foto ingiallita di un cane davanti al mare.
“Grazie per essere stato lì quando io non ce la facevo da sola”, c’è scritto.
E allora ricomincio.
Non perché sia un eroe.
Ma perché, in un mondo che ti spinge a scappare da tutto ciò che fa male, restare accanto a un essere vivente nel suo momento peggiore è diventato quasi un atto rivoluzionario.
Se c’è una cosa che vorrei dire a chi entra in ambulatorio con il cuore in gola e il portafoglio vuoto, è questa:
Non mi interessa quanti soldi ha in banca.
Mi interessa quanto è disposto a restare.
A guardare.
A tenere quella zampa tra le dita fino alla fine, se serve.
I conti si sistemano quasi sempre.
Con le rate, con le rinunce, con qualche notte in bianco.
Ma l’amore vero, quello che non scappa alla prima difficoltà, quello no, non si compra e non si calcola.
Quando la ragazza con il grembiule torna per i controlli, il suo cane zoppica un po’, ma la segue come un’ombra.
Lei lavora ancora troppo, guadagna ancora poco, l’affitto è ancora un problema.
Ma ogni volta che lo guarda, io vedo la stessa cosa che ho visto per quarant’anni in mille stanze diverse:
quell’amore silenzioso, ostinato, che non chiede niente se non una possibilità.
Forse, in fondo, il mio lavoro non è decidere chi può vivere o no.
Il mio lavoro è ricordare a tutti — me compreso — che essere davvero umani non significa salvare ogni creatura che entra dalla porta.
Significa non voltarsi mai dall’altra parte,
nemmeno quando fa male,
nemmeno quando costa troppo,
nemmeno quando ti porta via un altro pezzo di anima.
Il resto, lo fa il tempo.
E, qualche volta, la vita ci sorprende.






