La Lasagna di Natale e le Mani Tremanti di Mio Padre

Se stai leggendo questo, sì: è la parte 2. È quella che non pensavo di dover scrivere, perché credevo che bastasse un abbraccio per sistemare tutto. Ma il Natale non finisce quando spegni le luci dell’albero… a volte comincia proprio dopo, quando restano le briciole sul tavolo e certe immagini ti rimangono addosso.

Io sono Francesca, 44 anni. E dopo quella Vigilia in cui ho capito che la perfezione non scalda nessuno, mi sono accorta di una cosa che mi faceva più paura di una lasagna bruciata: il tempo.

Quella notte, quando tutti se ne sono andati e i bambini finalmente hanno smesso di litigare, mi è rimasto in testa un dettaglio minuscolo. Le mani di mio padre.

Le avevo sentite tremare mentre lo abbracciavo. Un tremore leggero, come una foglia che non vuole cadere. Non era il freddo. In casa c’era caldo, troppo caldo.

Ho iniziato a fare finta di niente, come facciamo tutti. Ho lavato i piatti, ho raccolto carte regalo, ho rimesso a posto il salotto cercando di “mettere in ordine” anche dentro di me.

Ma a un certo punto ho aperto la credenza per prendere i sacchetti dell’umido, e mi è caduto l’occhio sul cappello di Papà. Era rimasto lì, sul ripiano, come se avesse dimenticato una parte di sé.

Ho preso il cappello tra le mani e mi è venuto un nodo in gola. Ho rivisto lui, seduto sul bordo della poltrona, rigido e gentile, come se non volesse mai dare fastidio.

Non ho dormito bene. Alle tre e mezza ero ancora sveglia, a fissare il soffitto, con una frase che rimbalzava in testa come il pendolo di casa loro: “E se un giorno non suona più?”

La mattina di Natale li ho chiamati presto. Troppo presto, forse. Ma non mi importava.

“Mamma, siete già svegli?”

La sua voce era impastata di sonno, ma felice. “Amore… sì, sì. Tuo padre è in cucina. Ha già acceso la moka.”

Ho inspirato come se quella moka mi arrivasse davvero. “Posso passare dopo pranzo? Solo io. Senza i bambini, senza casino.”

Un piccolo silenzio, e poi lei: “Certo. Vieni quando vuoi. Sai che la porta è aperta.”

Quella frase mi ha colpita più di qualunque lezione. La porta è aperta. Sempre. Anche quando non te la meriti.

Nel primo pomeriggio ho preso la macchina e sono andata da loro. La città era stranamente quieta, come se tutti stessero trattenendo il fiato. Le strade erano lucide di umidità, le luci di Natale tremolavano sui balconi.

Quando sono arrivata, ho sentito il pendolo già dall’ingresso del palazzo. Tac… tac… con quei due secondi di ritardo che mi avevano accompagnata per tutta la vita.

Mamma mi ha aperto con il grembiule addosso, anche se non cucinava più da ore. Aveva quel vizio dolce di “essere pronta” nel caso qualcuno avesse bisogno.

“Franci… ma che bella sorpresa.”

Le ho dato un bacio e sono entrata. Odore di caffè e arancia. Il loro salotto era lo stesso, eppure mi sembrava diverso. Forse perché, per la prima volta, lo guardavo come si guarda un posto fragile.

Papà era seduto al tavolo della cucina, con un giornale piegato e la tazza davanti. Quando mi ha visto, ha sorriso con quella modestia che mi ha sempre fatto tenerezza.

“Oh… sei venuta.”

Non “che bello”. Non “mi mancavi”. Solo “sei venuta”, come se la mia presenza fosse un regalo che non voleva pretendere.

Mi sono seduta di fronte a lui. Ho guardato le sue mani. Le dita un po’ più sottili, le vene più evidenti. Le unghie tagliate con cura, come sempre.

“Eri stanco ieri?” ho chiesto, cercando di sembrare normale.

Lui ha alzato le spalle. “No, no. Era una bella serata. I bambini… che confusione, però.” Ha sorriso.

Mamma ha portato un piattino di torroncini, come se fossimo ancora nel 1995. “Ne vuoi uno?”

Ho scosso la testa. Mi tremava la voce. “Papà… ti tremavano le mani ieri.”

Non l’ho detto accusandolo. L’ho detto come si dice la verità quando non vuoi più mentirti.

Lui ha abbassato gli occhi sul tavolo. Ha fatto un gesto piccolo, con le dita, come per scacciare una mosca invisibile.

“Ogni tanto succede. L’età, Franci. Non ci pensare.”

Mamma si è irrigidita. Ho visto la sua mano stringere il bordo del piatto.

“Da quanto succede?” ho insistito.

Papà ha respirato lento, come se stesse scegliendo parole che non facessero rumore. “Da un po’. Niente di che. Io… non volevo preoccuparvi.”

Eccola, la frase che mi ha fatto male. Non volevo preoccuparvi. Come se la loro missione, ancora oggi, fosse proteggerci.

Mi sono alzata e ho preso la sua mano. Era calda, ma sotto la pelle sentivo quel tremore leggero, ostinato.

“Papà, io voglio essere preoccupata, se serve. Voglio saperlo.”

Lui mi ha guardata. In quegli occhi c’era una stanchezza nuova e una dignità antica.

“È che… mi vergognavo.”

“Di cosa?” ho sussurrato.

“Di diventare lento. Di diventare… un impiccio.”

Mamma ha fatto un verso, come un singhiozzo che non vuole uscire. “Non dire così.”

Lui ha sorriso, ma era un sorriso amaro. “Quando ero giovane, sollevavo mobili da solo. Guidavo per ore. E adesso… mi cade la chiave. Mi tremano le mani quando taglio il pane. Ho paura di rovesciare il vino a casa tua davanti a tutti. Ho paura che mi guardino come si guarda un vecchio che non serve più.”

Quelle parole mi hanno fatto venire un calore improvviso negli occhi. Ho capito che il suo tremore non era solo un fatto del corpo. Era un tremore dell’anima.

Mi sono seduta di nuovo e ho preso fiato. “Papà… ieri sera, quando vi ho visto sul divano… ho avuto un pensiero orribile. Ho pensato che eravate arrivati troppo presto. Che mi avreste complicato le cose.”

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