La mia ex ha venduto la moto di famiglia mentre ero in missione, ma un giorno quaranta moto sono arrivate

Mia moglie ha venduto la moto che tre generazioni della mia famiglia avevano costruito e amato.
L’ha venduta mentre io ero in missione all’estero, salvando vite come infermiere militare.

Non era “solo una moto”.

Era una vecchia moto italiana del 1949, telaio artigianale costruito da mio nonno con le sue mani, quando era tornato dalla guerra.
Mio padre l’aveva restaurata dopo il suo servizio all’estero. E io l’avevo rimessa in strada negli anni delle mie missioni.
Doveva passare a mio figlio, un giorno. Era il nostro filo rosso.

Mia moglie l’ha venduta per dodicimila euro a un collezionista trovato su un sito di annunci.
Io non sapevo niente.

L’ho scoperto da una foto su un social.

Lei, sorriso perfetto, in centro a Bologna, in posa con una borsa di lusso al braccio.
Sotto, la didascalia:

“Ogni tanto una donna deve viziarsi un po’ mentre il marito è in giro a fare l’eroe.”

Un mio collega, Stefano, ha fatto lo screenshot e me l’ha mandato sul telefono, nella tenda polverosa della base militare.
Io sono rimasto a fissare lo schermo, con la sabbia afghana negli occhi, e ho capito che la donna con cui ero sposato da quindici anni non aveva idea di cosa avesse appena distrutto.

Quella moto non era metallo e gomma.
Era tre generazioni di uomini che tornavano a casa dalla guerra cercando pace su una strada di campagna.

Mio nonno aveva sempre detto ridendo che c’era il suo sangue dentro quel telaio.
Si era tagliato una mano mentre saldava, e da allora ripeteva: “Se un giorno questa moto si ferma, vuol dire che si è fermato anche il mio cuore.”

Quando ho chiamato mia moglie in videochiamata, il giorno dopo, ero ancora convinto di aver capito male.
Speravo in una spiegazione. Qualcosa.

Quello che ha detto lei, invece, ha reso la vendita quasi un atto di gentilezza, in confronto al resto.


«È solo una moto, Davide», ha detto.
Si guardava le unghie, come se stessimo parlando di una sedia rotta.

«Solo una moto?» sentivo la mia voce tremare, anche se cercavo di tenerla bassa. «Hai venduto la storia della mia famiglia per… per una borsa?»

«Non fare il melodrammatico. Avevamo bisogno di soldi.»

«Per una borsa firmata?» ho ripetuto. «Hai venduto l’unica cosa che collegava mio nonno, mio padre, me e nostro figlio… per una borsa.»

«Tuo nonno è morto. Tuo padre è morto. Non credo che stiano piangendo per una moto, da dove sono adesso», ha risposto lei, fredda.

Dietro di me, nella base, è partito l’allarme. Sirene, voce metallica che gridava di correre ai rifugi.
Io sono rimasto seduto davanti allo schermo. Non riuscivo a muovermi.

La guardavo e cercavo quella ragazza che piangeva il giorno del nostro matrimonio quando parlavo di “portare avanti le tradizioni”.
La stessa che, incinta, voleva farsi fotografare seduta sulla moto dicendo: “Nostro figlio nascerà già con la benzina nel sangue”.

Quella donna, davanti a me, sembrava un’altra persona.


«E poi, tanto per dirla tutta,» ha continuato, «a Lorenzo le moto non piacciono nemmeno. A lui interessa solo il computer. Quella moto sarebbe marcita in garage.»

Lorenzo.
Nostro figlio di tredici anni.
Quello che lucidava la moto con me tutte le domeniche mattina da quando riusciva a tenere in mano uno straccio.
Quello che conosceva ogni graffio, ogni vite, ogni storia legata a quella sella.
Quello che mi chiedeva almeno una volta al mese: “Papà, quando compio sedici anni mi insegni a guidarla, vero?”

«Passami Lorenzo», ho sussurrato.

«È da un compagno di classe», ha detto lei, già con gli occhi sul portatile, annoiata.

«Martina, quella moto ha visto più guerre dei libri di storia. È sopravvissuta a bombardamenti, traslochi, incidenti. L’ha costruita mio nonno quando è tornato dalla guerra senza un soldo. L’ha rimessa a nuovo mio padre dopo il suo servizio. Doveva—»

«Doveva cosa, Davide? Restare in garage per farti credere che hai ancora venticinque anni? Hai quarantatré anni. Hai un ginocchio che ti fa male quando piove. Non avresti fatto cento metri senza lamentarti.»

«L’ho usata per venire alla caserma il giorno in cui sono partito per questa missione», ho mormorato.

«Sì. E io ho dovuto tornare a casa con quella cosa rumorosa, mentre tutti mi guardavano come se fossi pazza. Come sempre, hai pensato solo a te e alla tua benedetta moto.»

Il segnale ha iniziato a gracchiare. L’allarme diventava più insistente.
Dovevo correre al bunker. Ma restavo lì.

«Chi l’ha comprata?» ho chiesto. «Posso ricomprarla. Pago il doppio. Il triplo.»

«Un signore del nord, credo», ha detto lei. «Non ricordo il nome. Ha pagato in contanti e l’ha fatta caricare sul camion in giornata.»

«E non ti sei fatta lasciare un contatto? Una mail? Qualcosa?»

Ha alzato le spalle. «Non pensavo fosse importante.»

Il segnale è saltato proprio mentre cercavo l’unica domanda che non riuscivo a tenere dentro.

«L’hai fatto per punirmi perché sono ripartito?» le ho chiesto, poco prima che lo schermo diventasse nero. «Perché ho accettato un’altra missione?»

Per un attimo mi ha guardato dritto negli occhi.

«Tu hai scelto l’esercito al posto della famiglia», ha detto lentamente. «Per la quarta volta. Quarta missione, quarto anno in cui sparisci. Allora sì, ho scelto anch’io. Ho scelto di smettere di fingere che quella moto valesse più della mia felicità.»

Poi la connessione è caduta.

Sono rimasto nel bunker tre ore, con i colpi che cadevano poco lontano.
E in testa non avevo paura di morire.
Avevo solo l’immagine di mio nonno in una stalla gelida nel ’49, a montare pezzi di ferro recuperati nelle officine.
Di mio padre, nel ’79, con le mani unte d’olio, che diceva: “Se sistemo questa, magari sistemo anche un po’ la testa.”
Di me che mostravo a Lorenzo come controllare l’olio, come toccare la moto con rispetto.

Tutto finito. Per una borsa.


Sei mesi dopo, sono tornato in Italia.

Martina non è neanche venuta all’aeroporto.
Mi hanno consegnato i documenti del divorzio direttamente in caserma.
Lei chiedeva la casa, l’assegno di mantenimento, il contributo per il figlio.
Nel frattempo aveva già fatto trasferire il suo nuovo compagno, un personal trainer conosciuto in palestra, nella nostra camera da letto.

Ma quello che mi ha spezzato non è stato il nuovo uomo.
È stato lo sguardo di Lorenzo.


«Hai venduto la moto di papà?!» le urlava quando sono andato a prenderlo per il primo weekend deciso dal giudice.
La sua voce si sentiva già dal pianerottolo.

«Hai venduto la moto del nonno?! Mi avevi promesso che l’avremmo tenuta insieme finché papà era via!»

«Le moto sono pericolose», ha risposto lei, fredda. «Ti ho protetto.»

«Da cosa? Dalla mia storia? L’unica cosa che mi faceva sentire vicino a papà quando lui era dall’altra parte del mondo?» Lorenzo aveva il viso rosso, gli occhi pieni di lacrime che cercava di trattenere. «Ti ricordi chi ha pulito il carburatore con papà? Io! Ti ricordi chi si sa ogni graffio a memoria? Io! E tu l’hai venduta per una cavolo di borsa?!»

«Attento a come parli», ha sibilato lei. «Non permetterti quel tono.»

«Vuoi parlare di tono?» Lorenzo ha tirato fuori il telefono. «Parliamo del messaggio che hai mandato a quel tuo amico, dove scrivi che finalmente “quella stupida fantasia da motociclista” di papà è sparita e puoi parcheggiare il tuo suv nuovo in garage.»

Io non sapevo niente del suv.
La borsa, a quanto pare, era solo l’inizio.
Aveva fatto debiti usando i miei stipendi dalle missioni, svuotato il conto risparmio.

«Lorenzo», ho detto piano. «Prendi la giacca. Andiamo.»

In macchina, il ragazzo è crollato.

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