«Ho provato a fermarla, papà», singhiozzava. «Ho nascosto le chiavi della moto. Ho chiamato la nonna, le ho chiesto se poteva fare qualcosa. Ma mamma ha fatto venire quel tipo quando ero a scuola. L’ha fatta caricare sul camion e basta.»
«Non è colpa tua», gli ho detto.
«Ho fatto quello che mi hai insegnato», ha aggiunto all’improvviso, tirando di nuovo fuori il telefono. «Hai detto di documentare tutto ciò che conta. Così ho fatto le foto prima che partissi per la missione. Tutti i dettagli. Nel caso succedesse qualcosa.»
Ha aperto la galleria.
C’erano centinaia di foto.
Il numero di telaio.
Il piccolo graffio sul serbatoio che mio padre non aveva mai voluto sistemare perché “ogni cicatrice racconta una storia”.
Il segno sulla sella dove mio nonno teneva sempre lo stesso portafoglio consumato.
Perfino un video del motore al minimo, con quel borbottio profondo riconoscibile anche a occhi chiusi.
«Possiamo ritrovarla, papà? Possiamo riprendercela?»
Lì ho avuto la tentazione di dirgli una bugia. Di promettergli che sì, certo, l’avremmo trovata.
Ma gli dovevo la verità.
«Non lo so», ho ammesso. «Ma ci proveremo.»
La sera stessa ho aperto il computer.
Ho scritto in tutti i forum di appassionati di moto d’epoca, in tutti i gruppi di ex militari che fanno raduni in moto, nelle pagine di collezionisti.
Ho caricato le foto di Lorenzo, il video, i numeri di telaio, la storia.
“Vecchia moto italiana del 1949, colore verde opaco, segni a mano del reparto militare del nonno, restaurata dal figlio negli anni ’70, usata dal nipote in missione. Venduta senza autorizzazione mentre il proprietario era all’estero in servizio. Cerchiamo chi l’ha comprata.”
Le risposte sono arrivate subito.
Ex militari indignati per la mancanza di rispetto.
Appassionati che chiedevano dettagli.
Collezionisti che controllavano i propri archivi.
Passavano le settimane. Poi i mesi.
Niente.
Finché una mattina di sabato il telefono ha squillato.
Numero sconosciuto, prefisso di una provincia del nord.
«Pronto, parlo con il signor Davide Rinaldi?» ha chiesto una voce anziana, calma.
«Sì.»
«Mi chiamo Giulio Ferri. Credo di aver comprato la sua moto.»
Mi si è fermato il respiro.
«Colleziono motociclette militari da una vita», ha continuato. «Quando ho visto il suo annuncio mi è venuto un colpo. I numeri coincidono. Le foto pure. Sono io quello che l’ha comprata da sua moglie.»
Ho sentito il sangue che ronzava nelle orecchie.
«Lei… lei sapeva che ero vivo?» ho chiesto.
Silenzio.
Poi, piano: «No, figlio mio. Anzi. Tua moglie mi ha detto il contrario. Che eri morto in missione. Che non sopportava più di vedere la moto in garage perché le ricordava il tuo “sacrificio”.»
Mi sono dovuto sedere.
«Ho qui tutta la documentazione», ha proseguito il signor Ferri. «Contratto di vendita, ricevuta del trasporto, messaggi. E ho la moto. È in un capannone, coperta. Non l’ho nemmeno accesa da quando è arrivata.»
«Le la ricompro», ho detto subito. «Qualsiasi cifra. Le ridò ogni euro e anche di più.»
«Ascolta, Davide», ha sospirato. «Io ho fatto il militare tanto tempo fa. Non ho dimenticato cosa vuol dire stare lontano da casa. Nessun soldato si merita che gli vendano un pezzo di famiglia mentre è sotto il sole in un paese straniero. Non con una bugia del genere.»
«Quindi…?»
«Quindi la moto torna a casa tua», ha detto. «Senza che tu mi dia un centesimo.»
Non riuscivo a parlare.
Lorenzo, accanto a me, con il viva voce acceso, mi stringeva il braccio così forte che quasi mi faceva male.
«C’è solo una condizione», ha aggiunto il signor Ferri. «Io e alcuni amici facciamo parte di un’associazione di motociclisti, quasi tutti ex militari o ex vigili del fuoco. Vorremmo portartela noi, guidandola. Non per fare scena, ma per dare un segnale chiaro su cosa succede quando qualcuno manca di rispetto a chi è in servizio.»
Due settimane dopo, li ho sentiti arrivare ancora prima di vederli.
Un rombo profondo, come un temporale lento che si avvicina lungo la via.
Mi sono affacciato dal balcone del condominio e li ho visti.
Una quarantina di moto d’epoca, verdi, nere, rosso scuro, con caschi lucidi e giacche piene di stemmi di reparti, bandiere ripiegate, targhette di vecchie missioni.
In testa al gruppo, la mia moto.
La riconoscevi subito, anche da lontano.
Mio nonno, se avesse potuto vederla, avrebbe sorriso con quei suoi occhi stanchi.
In cortile c’era anche Martina, insieme al suo avvocato. Stavano discutendo di orari di visita per Lorenzo.
Quando ha sentito il rumore, si è girata.
Quando ha visto chi guidava la moto in testa al gruppo, è diventata bianca.
Il signor Ferri è sceso con la lentezza dignitosa di uno che porta ancora sulle spalle il peso di tutta una vita.
Ha spento il motore, ha messo il cavalletto con un gesto sicuro, poi ha guardato lei. Poi me.
Poi di nuovo lei.
«Signora», ha detto con voce ferma. «Le sto restituendo un bene che non era suo da vendere.»
«L’ho venduta legalmente», ha replicato Martina, subito. «Sono sua moglie. Avevo il diritto—»
«Lei mi ha detto che suo marito era morto», l’ha interrotta il signor Ferri. La sua voce era gelida. «Mi ha mandato messaggi in cui parlava del “povero Davide” e del suo “eroico sacrificio”. Ha preso dei soldi raccontando una bugia grave. Questo, in qualunque paese civile, si chiama truffa.»
Le ha voltato le spalle e ha messo le chiavi nelle mie mani.
Le ho sentite pesanti, quasi sacre.
C’era ancora il portachiavi che mio padre aveva aggiunto dopo il suo servizio all’estero. E quello che avevo aggiunto io quando sono tornato dalla mia prima missione.
Lorenzo è corso verso la moto.
Ha passato le dita sul serbatoio, come se volesse accertarsi che fosse vera.
«È davvero lei», sussurrava. «È tornata davvero.»
«Non certo grazie a tua madre», ha detto il signor Ferri, senza alzare la voce, ma in modo che tutti sentissero. «Chi vende l’eredità di un uomo mentre lui salva vite lontano da casa… si scava da sola la fossa, nella memoria delle persone.»
Dal portone è uscito il nuovo compagno di Martina, quello della palestra.
Muscoli in mostra, aria da duro.
«C’è un problema?» ha chiesto.
Quaranta uomini con capelli bianchi, cicatrici, medagliette sul petto e spalle larghe si sono girati verso di lui all’unisono.
Nessuno ha detto una parola.
«Nessun problema», ha borbottato lui, abbassando lo sguardo. «Andiamo, dai», ha sussurrato a Martina, cercando di portarla via.
Il signor Ferri ha tirato fuori una cartellina di plastica.
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