La notte in cui volevo perdere tutto e il mio cane mi ha salvato

I medici dicono che stanotte sono vivo per un miracolo. Si sbagliano. Sto respirando grazie al cane che stamattina ho guidato nella neve con l’idea di farlo addormentare per sempre.

Mi chiamo Elio. Ieri, al distributore, ero solo un vecchio in camicia di flanella sbiadita che faceva gasolio a un furgone stanco.

Nessuno ha notato le mani che tremano, gli occhi rossi, né il cane dorato sul sedile del passeggero, il muso grigio, la coda che batte piano.

Lui si chiama Bino. E io lo stavo portando al suo ultimo viaggio.

Per quarant’anni ho guidato camion su e giù per l’Italia. Ho lavorato, pagato le tasse, dimenticato di invecchiare. Poi Lucia, mia moglie, si è ammalata. I risparmi sono finiti tra viaggi, medicine, mesi di ospedale.

Dopo la sua morte è arrivata la mia protesi all’anca, poi la fine del lavoro. È rimasta solo una pensione troppo bassa per l’affitto.

Ho resistito finché ho potuto. Poi è arrivato lo sfratto. L’assistente sociale mi ha trovato un posto in un alloggio per anziani in montagna: piccola stanza pulita, riscaldamento, bagno in comune. L’unica alternativa al dormire in furgone d’inverno.

Sul regolamento c’era scritto, in maiuscolo: È VIETATO TENERE ANIMALI DOMESTICI.

Ho provato a spiegare che Bino è vecchio, tranquillo, che non disturba nessuno. La responsabile mi ha guardato con tristezza. «Mi dispiace, signor Elio. Non posso cambiare le regole.»

Ho sessantotto anni e una gamba di metallo. Non posso vivere per strada.

Bino ha dodici anni, l’artrite e il cuore debole. Al canile nessuno prenderebbe un cane così. Lo vedevo in un box freddo ad aspettare una puntura. Non ce la facevo.

Così ho deciso che sarei stato io ad accompagnarlo. Una clinica veterinaria in una valle vicina si occupava di “fine vita”. Nel portafoglio avevo quaranta euro: abbastanza per il gasolio e per la visita. Mi sono ripetuto la frase con cui ci perdoniamo tutto: non ho scelta.

Siamo partiti alle cinque del mattino. Il meteo parlava di neve, ma io ascoltavo solo il rumore del motore e del suo respiro vicino. Dopo un’ora mi sono fermato in un bar sulla statale. Ho preso due panini.

«Uno per lei e uno per il collega?» ha sorriso il barista, indicando Bino.

«Per il collega,» ho risposto.

Nel parcheggio gli ho dato il panino. Lui l’ha divorato felice, poi ha appoggiato la testa sul mio braccio e mi ha leccato una lacrima. Sapeva che ero triste. Non sapeva che lo stavo tradendo.

«Scusami, vecchio mio,» ho sussurrato. «Ti voglio bene.»

Siamo tornati sulla provinciale. La neve cadeva più fitta, il mondo diventava bianco e senza contorni. Io pensavo al futuro senza di lui e non vedevo quasi più la strada.

È successo in un attimo: un capriolo dal bosco, una frenata istintiva, il furgone che scivola sul ghiaccio, il vetro che esplode, la lamiera che urla, poi il colpo secco della scarpata.

Silenzio. Neve che entra dall’aria.

Ho provato a muovermi. La gamba era incastrata, il volante mi schiacciava il torace. Il freddo entrava da ogni parte.

«Bino?» ho rantolato.

Il sedile era vuoto.

«Bino!» ho gridato, o almeno ho provato.

Un guaito, lontano. Poi una testa dorata, sporca di sangue sopra un occhio, è comparsa nel buco del parabrezza. Zoppicando, è rientrato. Avrebbe potuto andare verso la strada. Invece è venuto da me.

«Scappa,» ho mormorato. «Vai via.»

Lui ha guardato il pendio, poi me. Non si è mosso. È avanzato tra i vetri, si è arrampicato sul mio petto e si è sdraiato sopra di me, curvando il corpo intorno al mio. Ho sentito il suo calore, il fiato caldo sul collo.

«Così ti congeli,» ho sussurrato. «Sciocco cane.»

Lui è rimasto.

Il freddo ha smesso di pungere, è diventato sonno. Ogni volta che chiudevo gli occhi, lui mi leccava il viso, guaiva piano, mi teneva sveglio. Era una piccola stufa viva, che consumava le ultime energie per tenere acceso me.

Il resto l’ho saputo dopo.

Un’automobilista ha notato il guardrail piegato e ha chiamato aiuto. La Polizia Stradale è arrivata. Dalla strada non si vedeva il furgone, poi qualcuno ha sentito abbaiare. Con una termocamera hanno visto due macchie di calore, una debole e una forte, una sopra l’altra.

Quando mi sono svegliato in ospedale, c’era un agente ai piedi del letto.

«Il cane,» ho mormorato. «Dov’è il cane?»

«Giù dal veterinario,» ha detto. «Ha un po’ di congelamento alle zampe e alle orecchie, qualche punto, ma adesso sta cercando di rubare una pallina. È tosto quasi quanto lei.»

Ho sentito le lacrime salire.

«Se non fosse stato per lui, non l’avremmo mai trovato,» ha aggiunto. «Il veterinario ha detto che gli mancava poco. A tutti e due.»

Ho guardato le mie mani: le stesse che tenevano il volante per portarlo a morire.

«Io non posso tenerlo,» ho sussurrato. «Nell’alloggio per anziani non vogliono animali. E io non ho una casa.»

L’agente ha preso il telefono. «La sua storia è già arrivata in paese. Qualcuno l’ha raccontata sui social. È partita una raccolta fondi per lei e per Bino. Guardi.»

Sul display c’erano nomi che non conoscevo e piccole somme. Insieme bastavano per pensare a un appartamento vero. «E un mio amico ha un alloggio al piano terra, con un cortile,» ha aggiunto. «Ha detto che, se il cane viene con lei, si sistema.»

Adesso scrivo dal letto d’ospedale. Sul comodino c’è la lettera di sfratto e il modulo per l’alloggio senza animali. Li ho strappati.

Per un soffio stavo perdendo tutto perché vedevo in Bino solo una spesa.

Ma quando la strada ghiaccia e la vita va fuori curva, non sono i numeri a tenerti in vita. Un regolamento non ti abbraccia. Una firma non ti scalda.

Solo l’amore lo fa.

Bino non è un peso. È il passeggero al mio fianco. E finché avrò fiato, non viaggerà mai più da solo.

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