Avevo già organizzato il mio funerale. Avevo scelto i fiori, la musica di Verdi e persino il marmo per la lapide. Tutto perfetto, tutto in ordine. Mio fratello non era nella lista degli invitati. Ma stamattina, un pacco rovinato ha distrutto il mio orgoglio e mi ha costretto a prendere l’ultimo treno per il passato.
Mi chiamo Elena. Ho 74 anni e vivo a Torino, in un appartamento in zona Crocetta, dove i viali sono alberati e il silenzio è d’oro.
Noi torinesi siamo cresciuti con quello che chiamiamo “rigore sabaudo”: schiena dritta, testa alta e sentimenti chiusi a chiave. La mia casa è come la mia città: elegante, austera, dove nulla è fuori posto.
Da venticinque anni, quell’ordine copre l’assenza di mio fratello minore, Marco.
Marco era diverso. Mentre io studiavo Economia per entrare in banca e avere una vita solida, lui scappò in Toscana per fare il pittore. Lui inseguiva la luce, io inseguivo la sicurezza. Eravamo come la montagna e il mare.
Abbiamo smesso di parlarci il giorno del funerale della Mamma.
In Italia, il funerale di una madre è sacro. È il momento in cui devi “fare bella figura” davanti a tutto il paese. Ma Marco arrivò in ritardo. Entrò in chiesa mentre il prete stava già benedicendo la bara. Aveva la camicia fuori dai pantaloni, le scarpe sporche di terra e puzza di vino.
Mi sentii umiliata. Davanti ai parenti, davanti alla “Torino bene” che mormorava. Usciti dalla chiesa, non lo abbracciai. Gli diedi uno schiaffo. — “Vattene”, gli gridai. “Non hai avuto rispetto per lei da viva, abbi almeno la decenza di sparire ora che è morta.”
Lui mi guardò con quegli occhi grandi e tristi, si toccò la guancia e se ne andò senza dire una parola.
L’orgoglio è una brutta bestia, e quello piemontese è duro come la pietra. Per venticinque anni ho rispedito al mittente le sue lettere. Credevo di avere ragione. Credevo di difendere la dignità della famiglia.
Ma stamattina, il portinaio mi ha consegnato un pacco. Arrivava da un paesino vicino a Siena.
Volevo buttarlo. Ma ho riconosciuto la scrittura. Quella calligrafia disordinata che la maestra elementare cercava sempre di correggere.
Ho aperto la scatola. Dentro, avvolta in vecchi giornali, c’era la nostra vecchia pendola di noce.
L’orologio che stava nel salotto della nonna. Quello che scandiva i nostri pranzi della domenica, tra l’odore dell’arrosto e le risate dei cugini. Credevo che Marco l’avesse venduta anni fa per comprarsi colori e tele.
Invece era lì. E incastrato tra le lancette, c’era un biglietto scritto su una ricetta medica:
«Elena, Te la restituisco. Qui il tempo non ha più senso per me. Il dottore dice che la nebbia sta scendendo nella mia testa. Ho paura, sorellona. Ho paura di dimenticare il suono di casa nostra. Prendila tu, che hai sempre avuto la testa sulle spalle.»
Mi sono sentita mancare l’aria. Non era una richiesta di perdono. Era un addio.
Ho chiamato il numero sulla ricetta. “Casa di Riposo Gli Ulivi, buongiorno”. L’infermiera è stata gentile, ma le sue parole sono state come pietre: “Ah, il signor Marco… Sì, ha l’Alzheimer. Avanzato. Confonde i giorni, a volte confonde le persone. Ha insistito tanto per spedire quel pacco finché si ricordava ancora il suo indirizzo.”
Ho guardato il mio appartamento perfetto a Torino. I mobili antichi, l’argenteria lucidata. All’improvviso mi sono sembrati una prigione di ghiaccio. Avevo passato la vita ad avere “ragione”, ma a cosa serve avere ragione se sei sola?
Ho preso il primo treno per Firenze, e poi un taxi per le colline.
Durante il viaggio, guardavo fuori dal finestrino la pianura che lasciava spazio ai cipressi. Mi sono vista riflessa nel vetro: una vecchia signora rigida. L’orgoglio mi aveva rubato mio fratello.
Sono arrivata alla casa di riposo al tramonto. La luce era quella dorata della Toscana, calda e malinconica, così diversa dal grigio della mia città.
Marco era seduto in giardino. Era invecchiato. I suoi capelli neri e ricci erano diventati bianchi e radi. Indossava un cardigan che gli andava grande.
Mi sono avvicinata con il cuore in gola. — “Marco?”
Si è girato lentamente. I suoi occhi mi hanno fissato, ma erano vuoti. — “Buonasera, signora”, ha detto con voce gentile. “È venuta per comprare un quadro?”
Mi si è spezzato il cuore. Ho sentito un dolore fisico, acuto. Ero arrivata tardi. Venticinque anni di silenzio cancellati dalla malattia. Non sapeva chi fossi.
Mi sono seduta accanto a lui sulla panchina. Ho tirato fuori dalla borsa la vecchia pendola. Con le mani che tremavano, ho girato la chiavetta per caricarla.
Ho spinto il pendolo. Tic-tac. Tic-tac.
E poi, il rintocco. Dond… Dond… Dond…
Quel suono profondo, familiare. Il suono della nostra infanzia. Il suono che significava “è ora di mangiare”.
Marco si è bloccato. Ha guardato l’orologio. Ha sbattuto le palpebre, come se si stesse svegliando da un lungo sonno. Si è girato verso di me. La nebbia nei suoi occhi si è diradata per un secondo.
Ha sorriso. Quel sorriso furbo che faceva quando rubava i biscotti dalla credenza. Mi ha preso la mano. La sua era fredda e ossuta.
— “Elena…”, ha sussurrato. “Sei in ritardo. Mamma ha fatto le lasagne, si arrabbierà tantissimo.”
Sono scoppiata a piangere. Ho appoggiato la testa sulla sua spalla e ho pianto tutte le lacrime che avevo trattenuto per una vita intera. — “Lo so, Marco”, ho singhiozzato. “Lo so. Scusami. C’era traffico.”
Lui mi ha accarezzato i capelli. “Non importa. L’importante è che sei arrivata.”
Adesso scrivo queste righe da un piccolo albergo in Toscana. Non torno a Torino. Rimango qui. Vado a trovarlo ogni giorno. A volte mi riconosce, a volte no. Ma quando faccio suonare la pendola, per un attimo siamo di nuovo due bambini che aspettano il pranzo della domenica.
Se state leggendo questa storia, e avete qualcuno con cui non parlate per orgoglio, per una vecchia lite, per principio…
Ascoltatemi bene. La vita è un soffio. L’orgoglio non ti scalda la notte. Aver ragione non ti tiene la mano quando sei vecchio.
Chiamate. Andate. Bussate a quella porta. Non aspettate il momento perfetto. Il momento perfetto è adesso.
Perché un giorno, la musica finisce. E il silenzio… il silenzio è insopportabile. Il tempo scorre. Tic, tac. Non sprecatelo.
Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬






