Sono tornata alla casa di riposo la mattina dopo con le dita ancora indolenzite dalla chiavetta della pendola, come se quel gesto avesse svegliato non solo Marco, ma anche me.
Non avevo dormito quasi niente nell’albergo. Ogni volta che chiudevo gli occhi sentivo quel *dond… dond… dond…* e rivedevo la sua mano fredda sulla mia, la frase che mi aveva fatto crollare: “Sei in ritardo.”
Ero partita da Torino convinta di rimettere a posto una colpa. Mi ritrovavo in Toscana a scoprire che certi danni non si riparano: si attraversano.
La direttrice, una donna sui cinquanta con i capelli raccolti e lo sguardo pratico, mi accolse in ufficio con un sorriso gentile. Sulla scrivania aveva un quaderno pieno di appunti e fotografie di nipoti.
— “Signora Elena, suo fratello ieri sera era… molto agitato e molto sereno, insieme,” disse, cercando le parole. “La pendola l’ha… agganciato. Non succede spesso.”
Mi sentii stringere lo stomaco. Avrei voluto essere contenta, e invece avevo paura di sperare.
— “Succede ancora?” chiesi.
— “A volte sì. A volte no,” rispose. “Con l’Alzheimer non si tratta di ‘tenere’, ma di ‘trovare’. Quando trova un appiglio, noi lo seguiamo.”
La parola *appiglio* mi restò addosso come un gancio. Io avevo passato una vita ad appigliarmi alla dignità, alla facciata, al rigore. E adesso l’unica cosa che contava era un suono di legno e metallo.
Mi accompagnò in giardino. Marco era seduto sotto un pergolato, con una tazza di tè in mano e lo sguardo perso nei cipressi.
Quando mi vide, non fece nessuna scintilla. Mi guardò come si guarda una sconosciuta educata.
— “Buongiorno, signora,” disse. “Che bel tempo.”
Mi fece male, ma non come il giorno prima. Era un dolore diverso, più adulto, come quando accetti che una cosa è vera anche se non la vuoi.
Mi sedetti accanto a lui e poggiai la pendola sulla panca, tra noi, come una terza persona.
— “Mi chiamo Elena,” dissi piano. “Sono… una vecchia amica.”
Lui annuì con gentilezza, senza chiedere altro. Aveva sempre avuto quel modo di non forzare, di lasciare spazio. Io, invece, lo spazio l’avevo sempre riempito con regole.
Girò la testa verso l’orologio.
— “È bello,” mormorò. “È… pesante. Come certe cose.”
Sorrisi, con le lacrime che mi salivano senza permesso.
— “Lo era anche la nonna,” dissi. “Pesante, ma giusta.”
Lui fece un verso come di approvazione, poi guardò le mie mani.
— “Lei ha le mani da… contabile,” disse improvvisamente. “Mani pulite.”
Quella frase mi colpì come uno schiaffo gentile. Era una definizione precisa e crudele, detta senza cattiveria.
— “Sì,” ammisi. “E tu avevi le mani da pittore. Sempre sporche.”
Per un attimo, vidi un tremolio. Non un ricordo intero, ma l’ombra di un colore. Marco portò le dita al pollice, come se sentisse ancora la ruvidità di un pennello.
— “I colori… scappano,” disse. “Appena li guardi troppo, scappano.”
Avrei voluto abbracciarlo, dirgli che ero lì, che ero sua sorella, che avevo sbagliato tutto. Ma capii che quel tipo di verità, in quel momento, sarebbe stata un peso, non un dono.
Così feci l’unica cosa possibile: restai.
Ogni giorno, alla stessa ora, portavo la pendola. Non sempre la caricavo subito. Prima parlavo del tempo, della strada, delle colline, delle cose piccole che non fanno paura.
Poi, quando lo vedevo più stanco, quando la nebbia scendeva nei suoi occhi, la mettevo davanti a lui.
Tic-tac. Tic-tac.
E a volte, raramente, arrivava il rintocco. E con il rintocco arrivava un pezzo di Marco.
Il terzo giorno successe una cosa che non mi aspettavo. Nel corridoio incontrai un uomo alto, magro, con una giacca troppo pesante per la Toscana e una barba grigia non curata.
Aveva un’espressione tesa, come chi non sa se entrare o scappare.
— “Lei è… Elena?” chiese.
La voce era bassa, trattenuta.
— “Sì,” risposi, all’erta.
— “Io sono Paolo,” disse. “Sono… suo nipote. Figlio di Marco.”
Mi mancò il respiro. Mio nipote. Una parola che avrei dovuto pronunciare da vent’anni, e invece mi arrivava addosso come una lettera rimasta chiusa in un cassetto.
— “Marco… ha un figlio,” ripetei, stupida, come se lo stessi leggendo da un foglio.
Paolo annuì, e negli occhi gli vidi una rabbia vecchia. Non quella di un litigio recente. Quella di chi è cresciuto sapendo di essere stato scartato senza nemmeno essere conosciuto.
— “Sì,” disse. “E io ho saputo di lei perché lui… fino a poco tempo fa… la nominava.”
Mi venne da dire *io non lo sapevo*, ma la frase si spezzò in gola. Anche se non lo sapevo, era comunque colpa mia. Perché io avevo reso impossibile, con il mio orgoglio, perfino l’esistenza degli altri.
Paolo guardò verso il giardino.
— “Lo riconosce ancora?” chiese.
— “A volte,” dissi. “A volte no.”
— “Io sono venuto tante volte,” disse lui. “Ma con me… è più difficile. Mi guarda e dice che sono un estraneo.”
Sentii una fitta. Era come se quella malattia avesse fatto giustizia a modo suo: restituiva a ciascuno il dolore che aveva seminato, ma senza intenzione.
— “Oggi posso entrare con lei?” chiese Paolo. “Non so… da solo mi sento uno stupido.”
Per la prima volta dopo anni, sentii la voglia di fare qualcosa di giusto senza calcolare l’effetto.
— “Sì,” dissi. “Venga.”
In giardino, Marco era seduto con il cardigan troppo grande. Quando ci vide arrivare, sorrise per educazione.
— “Buongiorno,” disse. “Siete qui per… le visite?”
Paolo si bloccò a mezzo metro. Lo vidi diventare un bambino, in quell’istante. Un bambino grande, con tutta la sua vita addosso e la paura di non essere riconosciuto.
— “Ciao papà,” disse, con una voce che tremava appena. “Sono Paolo.”
Marco lo guardò. Lo guardò davvero, come se stesse cercando una parola in un dizionario senza indice.
— “Paolo…” ripeté piano, come si prova un nome sulla lingua.
Poi, come spesso accade con chi è malato, fece una deviazione. La realtà gli sfuggì e lui la rincorse con un’immagine.
— “Paolo… sei quello che mi porta le arance?” chiese, serio.
Paolo deglutì. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma sorrise.
— “Sì,” disse. “Sono io. Te le porto sempre.”
Marco annuì soddisfatto, come se la cosa fosse perfettamente logica.
Io, in quel momento, capii una cosa semplice e spaventosa: non era importante essere riconosciuti per il ruolo giusto. Era importante essere riconosciuti come presenza.
Mi sedetti e posai la pendola tra noi tre. La caricai lentamente, senza fretta, come un rito.
Tic-tac. Tic-tac.
Paolo guardava l’orologio come si guarda un oggetto sacro, pur non sapendo perché.
Marco, invece, si immobilizzò.
Quando arrivò il rintocco, lui sussultò appena. Gli occhi si accesero di un lampo.
— “È… domenica?” chiese.
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