Mi si spezzò la voce.
— “Sì,” dissi. “È domenica. E la nonna sta preparando.”
Marco chiuse gli occhi come per sentire meglio. Le labbra si mossero, e poi disse qualcosa che non sentivo da venticinque anni.
— “Elena… non fare quella faccia,” mormorò. “Se mi vuoi bene, dimmelo. Non fare la signora.”
Il tempo, per un secondo, si fermò davvero. Non quello della pendola. Il tempo mio.
Paolo mi guardò, e nei suoi occhi vidi una domanda: *chi eri per lui?* E io, senza pensarci, feci una cosa che non avevo mai fatto con mio fratello da adulta.
Gli presi la mano, e la strinsi. Forte, senza pudore.
— “Ti voglio bene, Marco,” dissi. “Te ne ho voluto anche quando ti odiavo.”
Marco sorrise, stanco, come se quella frase gli fosse entrata nel corpo senza bisogno di capire tutto.
— “Allora basta,” disse. “Basta litigare.”
Paolo si avvicinò di un passo. Lentamente, come ci si avvicina a un animale spaventato.
— “Papà,” disse, piano, “posso… sedermi?”
Marco lo guardò, e per una volta non sembrò cercare un appiglio diverso. Guardò quel volto e disse, con semplicità:
— “Siediti. Sei alto come me. Chi ti ha fatto così?”
Paolo rise e pianse insieme. Un suono brutto e vero, come la vita quando smette di voler essere elegante.
— “Tu,” sussurrò. “Mi hai fatto tu.”
Quel pomeriggio restammo lì fino a quando l’aria si fece fredda. Marco, a un certo punto, si stancò. La nebbia tornò. Mi chiamò “signora” e chiese di nuovo se volevamo comprare un quadro.
Ma Paolo non si alzò.
— “Va bene,” disse. “Compriamo un quadro. Quale mi consiglia?”
Marco lo guardò con un’ombra di complicità.
— “Quello con la luce,” disse. “Sempre quello con la luce.”
Quando uscimmo dal giardino, la direttrice mi fermò nel corridoio.
— “Signora Elena,” disse, “sa che suo fratello ha ancora dei quadri?”
Mi voltai.
— “Quadri?”
— “Sì,” disse. “Ne ha lasciati alcuni qui. E altri… in una stanza della casa di riposo, con il suo nome. Non li guarda più, ma… ci sono.”
Paolo si irrigidì.
— “Io non li ho mai visti,” disse.
La direttrice annuì.
— “Forse non voleva. Forse aveva paura. Ma adesso… forse può.”
Quella sera, in albergo, Paolo ed io ci sedemmo a tavolino. Aveva lo sguardo di chi ha passato la vita a difendersi e non sa più come abbassare le armi.
— “Perché non mi ha mai cercato?” mi chiese.
Non era un’accusa teatrale. Era una domanda nuda.
Io guardai le mie mani da contabile.
— “Perché ero convinta di essere nel giusto,” dissi. “E il giusto… mi sembrava più importante dell’amore.”
Paolo non rispose subito. Poi disse una frase che mi colpì più di qualsiasi rimprovero.
— “Mio padre parlava di Torino come di una città che non lo voleva,” disse. “Ma parlava di te come di una persona che… lo faceva male senza volerlo.”
Mi venne da piangere, ma mi trattenni. Non per rigore sabaudo. Per rispetto.
— “Domani,” dissi, “andiamo a vedere quei quadri. E poi… se vuoi… li portiamo fuori. Li facciamo respirare.”
Il giorno dopo aprirono la stanza. Era piccola, con un odore di chiuso e di trementina vecchia. Sulle pareti c’erano tele appoggiate, alcune coperte da lenzuoli.
Paolo sollevò il primo telo e rimase immobile. Era un paesaggio toscano con una luce morbida, e in un angolo, quasi nascosta, una figura femminile di spalle, rigida, con un cappotto scuro.
— “Sei tu,” disse Paolo.
Io mi avvicinai. Le spalle della figura erano dritte, come le mie. Ma c’era qualcosa di diverso. Un dettaglio che mi fece tremare: la mano della donna era aperta, come se aspettasse.
Per anni avevo creduto che Marco fosse scappato. Invece aveva continuato a guardarmi. A modo suo.
Tirai fuori dalla borsa la pendola. Non per Marco, stavolta. Per me. La posai sul tavolo e la caricai.
Tic-tac. Tic-tac.
Paolo mi guardò.
— “Resta?” chiese.
Io pensai al mio appartamento perfetto, alla Crocetta, al silenzio d’oro che mi aveva tenuto al caldo e al gelo insieme.
— “Resto,” dissi. “Non perché devo. Perché voglio.”
Quel pomeriggio, in giardino, Marco era più confuso. Ci guardò e sorrise senza sapere.
Io gli presi la mano.
— “Ciao, Marco,” dissi. “Sono Elena.”
Paolo gli prese l’altra.
— “E io sono Paolo,” disse. “Ti porto le arance.”
Marco annuì, contento, come un bambino a cui promettono un premio.
Poi, come se il corpo ricordasse più della mente, guardò la pendola che avevo appoggiato vicino a lui.
— “Fa… quel suono,” disse. “Mi piace.”
Caricai la chiavetta e lasciai andare il pendolo.
Tic-tac. Tic-tac.
Non arrivò nessun miracolo. Non arrivò la frase perfetta. Non arrivò la memoria completa.
Arrivò una cosa più piccola e più vera: Marco ci guardò entrambi e disse, con una tenerezza semplice, come se fosse la cosa più normale del mondo:
— “Restate qui un po’. Non mi lasciate da solo.”
E io, che avevo organizzato il mio funerale per controllare tutto fino alla fine, capii finalmente che la dignità non sta nel non piegarsi.
Sta nel sedersi accanto. Sta nel restare, anche quando fa male.
Quella sera, quando tornai in albergo, non scrissi consigli al mondo. Non feci prediche. Non avevo più bisogno di insegnare niente a nessuno.
Scrissi solo una frase, per me, sul margine di un foglio:
*Il tempo non si recupera, ma l’amore sì. Anche a pezzi. Anche tardi.*
E mentre la pendola sul comodino continuava il suo tic-tac ostinato, pensai che forse il “rigore sabaudo” non era una serratura.
Forse era solo una porta che non avevo mai imparato ad aprire dall’interno.






