Da quando Buddy è entrato in casa mia, le notti d’inverno sono meno lunghe, ma la promessa che non ho mantenuto continua a bussare piano alla porta dei miei pensieri.
Non mi rimprovera, non urla: resta lì, come una voce amica che ogni tanto chiede solo di essere riascoltata.
I giorni hanno preso un ritmo nuovo, un po’ stanco ma ostinato.
La mattina, dopo il caffè alla moka, usciamo insieme: io con il cappotto pesante e la sciarpa che mi ha regalato mia nipote, lui con il suo passo lento e quel modo buffo di scuotere le orecchie quando l’aria pizzica.
Facciamo il giro del paese: bar all’angolo, edicola, panificio.
Davanti al bancone, la signora del pane ogni volta gli tiene da parte un pezzetto di crosta: «Per il nonno peloso», dice ridendo.
Buddy ha imparato a conoscere le mie abitudini, e io le sue.
Sa che dopo pranzo mi prendo dieci minuti in poltrona e si sdraia vicino, incollato ai miei piedi, come se dovesse controllare che il cuore continui a battermi.
Io, invece, ho imparato a distinguerne i sospiri: quello che vuol dire “ho fame”, quello che vuol dire “mi annoio”, e quello, più profondo, che somiglia alle domeniche di quando eravamo tre in casa, non due.
Un pomeriggio di fine inverno, mentre sistemavo dei vecchi documenti nella credenza del salotto, ho trovato una busta ingiallita.
Sulla parte davanti, riconoscibile subito, c’era la calligrafia storta di Marco: “Per Carlo, quando me la sentirò”.
Mi si è gelato il sangue.
Mi sono seduto al tavolo, la busta tra le dita che tremavano.
Buddy, forse percependo il mio nervosismo, si è avvicinato e ha appoggiato il muso sulla mia coscia.
«Calma, vecchio mio. Vediamo cos’ha combinato il tuo padrone», ho mormorato.
Dentro c’era una lettera, poche righe, scritte evidentemente in più riprese. Si vedevano le differenze di inchiostro, di pressione, quasi di respiro.
“Carlo,
se stai leggendo, vuol dire che una parte di me era più lucida di quanto volessi ammettere.
Ti ho chiesto di portare Buddy al canile perché non volevo costringerti a prenderti un altro peso.
Ti conosco: ti saresti offerto. E io avevo paura che la solitudine ti schiacciasse ancora di più, se fosse toccato anche a lui andarsene.
Ma ti conosco anche troppo bene per non immaginare che, all’ultimo, avresti seguito il cuore.
Se l’hai tenuto con te, non hai tradito la promessa: hai fatto quella giusta, quella che non osavo chiederti.
Qualsiasi cosa tu abbia deciso, grazie.
Marco.”
Le righe finali erano un po’ sbavate, come se una goccia fosse caduta sulla carta. Non so se fosse disinfettante, sudore o lacrima. So solo che a quelle si sono aggiunte le mie.
Ho passato il dorso della mano sugli occhi, imbarazzato anche se in casa non c’era nessuno a vedermi piangere, se non Buddy.
«Hai sentito, vecchio?» ho sussurrato. «Il tuo padrone era un passo avanti anche da fermo.»
Buddy ha dato un piccolo guaito, quasi un soffio, poi ha strofinato la testa contro il mio fianco con più insistenza del solito.
Da quel giorno, il peso della promessa si è trasformato.
Non era più una pietra nello stomaco, ma una specie di nodo alla cravatta: ti stringe un po’, ma ti ricorda che hai qualcosa di importante addosso.
Qualche settimana dopo, ho ricevuto una telefonata dal rifugio a cui non avevo portato Buddy.
La voce dall’altra parte era gentile, con quella stanchezza buona di chi è abituato a fare i conti con abbandoni e ritorni.
«Signor Carlo? Sono Lucia, una dei volontari. Ci siamo visti davanti al cancello… il giorno in cui ha deciso di riportare a casa il cane.»
Ho sentito il cuore fare un salto.
«Sì, mi ricordo.»
«Non si preoccupi, non la sto chiamando per rimproverarla», ha riso piano. «Anzi. Stiamo organizzando una giornata aperta, per far conoscere il rifugio. Pensavamo… se volesse venire con Buddy, potrebbe essere una bella testimonianza. Di cani che restano in famiglia fino alla fine, e non per qualche mese e poi basta.»
Ho guardato Buddy, che in quel momento dormiva disteso sul tappeto, le zampe che tremavano leggermente in un sogno chissà dove.
«Non so… Lui è vecchio, si stanca presto.»
«Anche i nostri ospiti», ha risposto lei. «Ma una carezza in più non ha mai fatto male a nessuno. Ci pensi, senza impegno.»
Ci ho pensato quella notte, e quelle dopo.
Alla fine ho detto sì.
Il giorno della visita, il cielo era di un azzurro pallido, di quelli che promettono primavera ma hanno ancora l’alito freddo dell’inverno.
Ho caricato Buddy in macchina con più delicatezza del solito. Lui ha borbottato un po’, abituato ormai ai giri brevi in paese, non alle strade più lunghe.
Quando siamo arrivati al rifugio, i cani hanno iniziato ad abbaiare in coro.
Alcuni, dietro la rete, saltavano, altri restavano distesi a osservare, con occhi troppo adulti per dei musetti così piccoli.
Lucia ci è venuta incontro con un sorriso che le arrivava fino alle rughe vicino agli occhi.
«Eccovi qui. Lui è sempre bellissimo.»
«Bellissimo è una parola grossa», ho risposto, dando una pacca affettuosa sul fianco di Buddy. «Diciamo… rispettabile.»
Ci hanno sistemati in un angolo tranquillo del cortile, su una panchina.
Chi voleva passava, si fermava, ascoltava la nostra storia: un amico perso, una promessa a metà mantenuta, un cane che aveva cambiato indirizzo ma non famiglia.
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