La promessa lasciata su un foglietto che mi ha cambiato la vita per sempre

Quella mattina, alle sette e mezza, il campanello ha suonato come un’allerta d’emergenza, e quando ho aperto la porta, qualcuno mi stava porgendo—letteralmente—una vita da salvare.

Nel corridoio del mio palazzo a Torino c’era Giulia, la mia vicina.
Stringeva tra le braccia un vecchio trasportino in vimini, e dietro la griglia due occhi gialli mi fissavano come se fossi l’ultimo porto sicuro rimasto sulla terra.

Mi chiamo Paolo, ho cinquantadue anni e vivo da solo in un bilocale…
Be’, da solo non proprio.
Ho già tre gatti: Nocciola, Fumo e Stella.
Tre presenze che sono arrivate ognuna dopo una perdita diversa: un matrimonio finito, un figlio trasferito al nord per lavoro, e mio padre che non c’è più.

— Paolo, scusami… — mormorò Giulia, visibilmente agitata.
— È per il gatto del signor Rinaldi. Lo sai, vero? È morto stanotte.

Mi si è stretto qualcosa dentro.
Il signor Rinaldi, quello del terzo piano, sempre gentile, sempre con il giornale sotto braccio, non avrebbe più salutato nessuno nel cortile.
Guardai il trasportino.
Il gatto non si muoveva quasi, solo un tremito impercettibile delle vibrisse.

— La famiglia è venuta stamattina — continuò Giulia.
Hanno svuotato la casa in due ore.
Hanno detto che non possono tenerlo.
Hanno firmato i documenti per portarlo al rifugio.
Il furgone passa questo pomeriggio.

La parola rifugio non rimbalzò semplicemente nell’aria: si piantò.
Pensai alle gabbie, ai miagolii, agli animali adulti che nessuno sceglie mai.
E mentre Giulia parlava, dentro di me si accese il solito calcolo involontario:

Tre ciotole.
Tre visite veterinarie.
Tre gatti da sistemare se dovessi assentarmi qualche giorno.
Bollette di luce e gas che sembrano correre più veloci di me.

Inspirai piano.
Sapevo già che quello che stavo per dire non mi sarebbe piaciuto.

— Giulia, ho già tre gatti — dissi piano.
Con i prezzi di adesso… non so se riesco a mantenerne un altro.
Mi dispiace davvero.

E mi dispiaceva sul serio.
Era come chiudere una porta su una richiesta d’aiuto, pur senza cattive intenzioni.
Nessuno mi disse “egoista”, ma io sentii comunque la parola rimbalzare dentro di me.

Stella sbucò dal soggiorno, curiosa, avvicinandosi alla porta con cautela.

— Capisco… — sospirò Giulia. — Io non posso tenerlo, il proprietario non vuole nemmeno il mio, figurati due.
Frugò nella tasca del cappotto ed estrasse un foglietto piegato.
— Però volevo farti vedere questo.

Lo aprii.
Era scritto a penna, calligrafia tremolante ma chiara.

«Se un giorno non dovessi tornare, vi prego, non lasciate il mio gatto da solo.
Si chiama Tigre.
Ha paura delle porte che sbattono, ma ama dormire sulla poltrona vicino alla finestra.
Grazie a chi gli aprirà la propria casa. — Rinaldi»

Lessi due volte.
Poi una terza.

“Non lasciate il mio gatto da solo.”

Immaginai il signor Rinaldi seduto al tavolo, la mano che gli tremava mentre scriveva quella frase, pregando che qualcuno avesse un po’ di spazio per il suo compagno di vita.
Niente eredità, niente soldi, niente richieste assurde.
Solo un vecchio gatto che aveva ancora bisogno di qualcuno.

Il corridoio era silenzioso.
Si sentiva solo il rumore lontano di un tram che frenava.

Mi girai verso il mio soggiorno:
il divano un po’ consumato, la sedia vuota accanto al tavolo, quella su cui si sedeva mia moglie quando abitava ancora qui.
E i miei tre gatti, ognuno arrivato per riempire un silenzio diverso.

Mi chiesi:
la casa è davvero piena… o è il mio coraggio che è mezzo vuoto?

— Va bene… — dissi. — Fai entrare Tigre un momento. Prima del rifugio.

Giulia sospirò con sollievo e posò il trasportino sul tappeto.
Aprii lentamente la griglia.

Tigre uscì con la lentezza dei gatti che hanno conosciuto la perdita.
Il pelo un po’ opaco, le orecchie segnate, gli occhi d’oro che catturavano ogni dettaglio della stanza come se stesse cercando un appiglio.

Fece un giro lento, annusando tutto.
Nocciola e Fumo lo osservavano con prudenza; Stella manteneva la distanza, ma senza soffiare.

Poi, come attratto da un ricordo, Tigre saltò sulla poltrona vicino alla finestra.
Quella che prende il sole al mattino.
Si acciambellò.
Si addormentò quasi subito.

Sentii un nodo in gola.
Le parole del signor Rinaldi tornarono tutte insieme:
“la poltrona vicino alla finestra”.

Era come se Tigre avesse ritrovato un pezzo di casa… in casa mia.

— Lo vedi? — sussurrò Giulia. — Cerca solo qualcuno da aspettare.

Rimasi in piedi, senza sapere dove mettere le mani.
Pensai ai telegiornali, ai discorsi sull’inflazione, ai conti che non tornano mai.
Sempre numeri, cifre, tabelle.
Ma nessuno parla delle poltrone vuote.
Né dei gatti che non capiscono perché una porta non si apre più.

— Se lo prendo… — dissi piano — non sarà “per adesso”.
Sarà fino alla fine.
Altrimenti non ha senso.

Gli occhi di Giulia si riempirono di lacrime veloci, silenziose.
— È tutto ciò che gli serve. Una casa che non lo abbandoni.

Nocciola si avvicinò e si sedette accanto a Tigre, lasciando qualche centimetro di rispetto.
Fumo fece finta di ignorare tutto, ma si spostò un po’ più vicino.
Stella salì sul davanzale, come per dire: “Va bene, ma ti tengo d’occhio.”

— Allora resta — conclusi.
Sentirò il veterinario.
Mi arrangerò.
Dobbiamo solo… stringere un po’ la cinghia.

Non era logico.
Non migliorava il mio bilancio mensile.
Ma dentro di me una frase risuonava chiara:

“Ha già perso una casa. Non gliene lascerò perdere un’altra.”

Più tardi, preso un vecchio portafoto, ci infilai il foglietto del signor Rinaldi.
Sotto scrissi a matita: Promessa mantenuta.

La sera, io mangiai meno del solito, ma riempii quattro ciotole senza esitare.
Fuori, tutto continuava: prezzi che salivano, stipendi fermi, discussioni infinite su chi ha torto o ragione.

Nel mio piccolo appartamento, però, avevo deciso di contare qualcos’altro:
non quanti gatti posso permettermi,
ma quanta solitudine posso ancora accogliere…

anche se quella solitudine ha quattro zampe, un orecchio sbeccato
e due occhi gialli
che sanno fare una sola cosa:
aspettarmi quando rientro a casa.

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