È stata proprio la mattina dopo che ho capito che Tigre non era solo “un gatto in più”, ma il punto esatto in cui la mia vita avrebbe cambiato direzione di qualche grado, quasi impercettibilmente… eppure per sempre.
Mi sono svegliato prima della sveglia.
Non succede mai: di solito mi trascino fuori dal letto con il rumore del tram in sottofondo e il caffè come unica motivazione.
Quella mattina, invece, aprii gli occhi perché qualcuno mi fissava.
Sul bordo del letto, composto come una sentinella, c’era Tigre.
Seduto, coda avvolta intorno alle zampe, gli occhi gialli puntati su di me.
Nocciola dormiva vicino al cuscino, Fumo aveva occupato il posto della mia ex moglie senza alcun senso di colpa, Stella era arrotolata a forma di virgola in fondo al letto.
Tigre no.
Tigre aspettava un segnale.
— Tranquillo, non sono scappato — mormorai, con la voce impastata.
Lui fece solo un piccolo “mrr”, quasi un sospiro, e poi scese giù, camminando verso la porta.
Come se volesse dire: “Dai, andiamo a vedere se mantieni le promesse anche di mattina.”
In cucina, quattro ciotole vuote mi fissavano come un test di coerenza.
Mentre aprivo le scatolette, mi resi conto di una cosa sciocca: avevo calcolato tutto la sera prima, il veterinario, le spese extra, le bollette… ma nessuno mi aveva preparato al rumore di quattro gatti che mangiano insieme.
È un suono particolare.
Un misto di crocchiare, leccare, respirare.
Una piccola orchestra domestica che ti ripete, a modo suo:
“Ci siamo. Siamo qui. Non sei solo.”
Tigre mangiava con calma, senza fretta, con l’aria di chi è abituato a dividere.
Ogni tanto alzava la testa e guardava verso la finestra, come se si aspettasse di vedere il signor Rinaldi passare con il giornale sotto braccio.
Quel riflesso mi colpì più della sua fame.
Verso le nove bussò Giulia.
Ancora lei, con la sciarpa avvolta male e l’aria di chi ha dormito poco.
— Volevo solo vedere come sta… — disse, sporgendo la testa nel corridoio.
Le feci cenno di entrare.
Tigre era sulla solita poltrona, quella vicino alla finestra.
Mi guardò, guardò Giulia, poi chiuse gli occhi, come se avesse già deciso che, almeno per il momento, il mondo poteva esistere anche senza di lui.
— Sta… bene — dissi, scegliendo la parola con cautela. — Mangia. Ha esplorato. Ha ronfato sul mio giornale.
Giulia sorrise.
Poi abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro.
— Senti, devo dirti una cosa.
Mi si strinse lo stomaco.
Quando qualcuno dice “devo dirti una cosa” alle nove del mattino, raramente è un complimento.
— La nipote del signor Rinaldi mi ha scritto — sospirò.
Tirò fuori il telefono, lo guardò, poi lo rimise via, come se non volesse contaminare l’aria con lo schermo. — Dice che non capisce perché ti sei offerto di prenderlo. Che al rifugio “tanto li trattano bene”.
Sentii salire un fastidio caldo, poco elegante.
— È venuta ieri, no? — chiesi. — Ha visto il gatto?
Giulia annuì.
— E ha firmato i documenti per l’abbandono, no?
— Dice che non è un abbandono. Che “non aveva scelta”.
Mi fermai un secondo.
Pensai a tutte le volte in cui, nella mia vita, avevo usato anche io quelle parole: non ho scelta.
Per il divorzio, per il lavoro accettato lontano da mio figlio, per le visite a mio padre in ospedale rimandate “a quando avrò un attimo”.
È comodo, non avere scelta.
Ti toglie la responsabilità.
— Be’, io una scelta ce l’avevo — dissi piano. — E l’ho fatta. Non ho rubato niente a nessuno.
Giulia mi guardò con quell’aria un po’ lucida che ha la gente quando è orgogliosa di te ma non vuole dirlo troppo forte, per non farti scappare.
— Se ti può consolare… — aggiunse. — Nel gruppo WhatsApp del condominio, ieri sera, qualcuno ha scritto che è stato un bel gesto. Che non è normale, ormai, prendersi carico di un animale anziano.
Sbuffai, quasi ridendo.
— Ah, quindi adesso sono “quello strano del secondo piano con quattro gatti, ma dal cuore d’oro”?
— No — rispose lei. — Sei “quello che ha fatto quello che tutti pensavano giusto, ma nessuno voleva fare”.
Non trovai una risposta migliore di un’alzata di spalle.
Ogni tanto la verità fa più rumore del necessario.
Alle undici avevo appuntamento dal veterinario.
Misi Tigre nel trasportino, quello stesso in vimini, ma con una coperta mia dentro.
I suoi occhi gialli mi fissavano, un po’ offesi, un po’ rassegnati.
— Lo so, non ami i viaggi — mormorai. — Nemmeno io.
La sala d’attesa era piena di cani giovani e padroni distratti che scrollavano il telefono.
Io tenevo il trasportino sulle ginocchia come si tiene un vaso antico.
Quando il veterinario uscì, alzò le sopracciglia.
— Ma questo è… Tigre, giusto?
— Lo conosce? — chiesi, sorpreso.
Annuì.
— Venivo io a casa del signor Rinaldi quando non riusciva più a portarlo. Mi diceva sempre: “Dottore, il mio gatto campa più di me, lo so. Ma magari trova qualcun altro da sopportare le sue manie.”
Sentii un bruciore agli occhi, stupido, improvviso.
Il veterinario aprì il trasportino, controllò Tigre con calma.
— È anziano, sì. — parlava con quella voce misurata di chi ha visto troppe cose per concedersi gli estremi. — Ma non è messo male. Un po’ di cura, qualche controllo ogni tanto, e può ancora scaldare molte poltrone.
— Posso permettermelo… più o meno — dissi. — Dovrò rinunciare a qualche pizza in più, ma non è la fine del mondo.
Lui mi guardò, serio.
— Guardi, signor Paolo, glielo dico da cittadino, non solo da medico: nella situazione in cui siamo, nel paese in cui viviamo adesso, chi sceglie di prendersi cura di qualcuno senza un ritorno immediato è più prezioso di qualsiasi bonus fiscale.
Rise, come per alleggerire.
Ma io non riuscii a ridere.
Perché era strano sentirsi dire che un gesto normale — tenere un gatto anziano fuori da una gabbia — fosse qualcosa di “prezioso”.
Quando uscimmo, Tigre si stringette nel trasportino, ma le orecchie erano meno abbattute.
Io avevo in tasca un foglietto con la terapia, un conto da pagare e una sensazione nuova: quella di aver firmato, senza tanti testimoni, un contratto di fiducia.
Il pomeriggio ricevetti la telefonata di mio figlio.
— Papà, ho visto sul gruppo di famiglia… È vero che hai preso un altro gatto?
Lo immaginai, dall’altra parte del telefono, nel suo monolocale al nord, con la tazza di caffè in mano e l’orologio aziendale al polso.
— Sì. Si chiama Tigre. Era del signor Rinaldi.
Ci fu un breve silenzio.
— Ma… tu fai già fatica a tirare avanti.
C’era preoccupazione nella sua voce, non giudizio. Questo lo rendeva più difficile da sopportare.
— Lo so — risposi. — Però ci sono fatiche che fanno sentire vivi. E altre che ti svuotano. Questa, stranamente, mi riempie.
— Non puoi salvare tutti i gatti del mondo, papà.
Sorrisi, anche se lui non poteva vedermi.
— Lo so. Infatti ne ho salvato solo uno. Gli altri tre mi hanno salvato loro, a modo loro.
Dall’altra parte sentii un sospiro.
— Sei sempre stato così. Mamma diceva che ti affezionavi anche alle sedie.
— E le sedie non graffiano il divano — risposi.
Questa volta ridemmo tutti e due.
Poi lui aggiunse, più piano:
— Sono contento per te. E per il gatto. Quando scendo, lo voglio conoscere.
Quando riattaccai, mi accorsi che Tigre mi stava osservando dalla porta, come se avesse sentito tutto e volesse capire in quale categoria rientrasse: quella che fa fatica… o quella che riempie.
Le settimane successive scorsero in modo strano.
Fuori, l’Italia continuava a fare l’Italia: bollette che aumentano, discussioni in tv, articoli sull’invecchiamento della popolazione e sulla solitudine degli anziani.
Dentro il mio bilocale, la notizia del secolo era che Tigre, una sera, aveva accettato di dividere la poltrona con Stella per dieci minuti buoni, senza litigare.
Un miracolo diplomatico che nessun governo aveva mai saputo gestire così bene.
Ogni tanto, tornando dal lavoro, trovavo Tigre sulla sedia vuota accanto al tavolo.
Quella, appunto, dove si sedeva mia moglie.
Sembrava aspettare qualcuno che non sapeva come descrivere.
All’inizio mi dava fastidio.
Era come vedere un fantasma con il pelo.
Poi capii che, in fondo, non era così diverso da me.
Anch’io aspettavo persone che non sarebbero più tornate: mio padre, un matrimonio, giorni in cui tutto sembrava più semplice.
Una sera, senza pensarci troppo, spostai la cornice con la promessa del signor Rinaldi dal mobile al tavolo.
La misi proprio davanti a quella sedia.
“Promessa mantenuta.”
Tigre salì sulla sedia, si sistemò, e appoggiò la testa accanto alla cornice.
Non so se fosse un caso.
Ma in quel momento, l’idea che un pezzo di qualcuno potesse continuare a esistere in una casa che non era la sua mi sembrò meno triste.
Un sabato mattina, tornando con le buste della spesa, incrociai la nipote del signor Rinaldi nel portone.
Trent’anni, giacca elegante, valigia con le ruote.
Mi guardò, esitò, poi disse:
— Ho sentito che ha preso il gatto di mio nonno.
Annuii.
Stringevo la busta un po’ troppo forte.
— Sì. Non volevo che finisse in un box. Sta bene, sa? Mangia, dorme, pretende.
Lei abbassò lo sguardo.
— Io… non potevo. Lavoro fuori, viaggio. Non sapevo…
Cercava una giustificazione, ma il tono era più di scusa che di difesa.
— Guardi — dissi, più gentile di quanto mi sentissi. — Non sempre si può. Però il suo nonno ci aveva sperato.
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