Tirai fuori il portafoglio, presi velocemente la foto della promessa che tenevo lì, ripiegata. — L’ha letta, questa?
Lei lesse.
Le labbra le tremarono appena.
— No. Non l’avevo vista — mormorò. — Se l’avessi letta…
Non finì la frase.
Restammo un attimo così, nel vano scala che sapeva di detersivo e posta vecchia.
— Se vuole venire a trovarlo, ogni tanto, la porta è aperta — dissi. — Non è una casa grande, ma c’è posto per un po’ di memoria in più.
Lei annuì, con gratitudine confusa negli occhi.
— Grazie. Davvero.
Quando salii, Tigre era, ovviamente, sulla poltrona.
Gli raccontai tutto, come se potesse capirmi parola per parola.
Forse non capì il contenuto.
Ma sentì il tono.
Si alzò, venne verso di me, e fece quella cosa rara che i gatti concedono solo quando vogliono: appoggiò la testa contro il mio petto, forte, per qualche secondo.
Fu in quel momento che capii una cosa semplice, quasi banale:
non avevo “salvato” Tigre.
Ci eravamo, in qualche modo, adottati a vicenda.
In un paese che conta tutto in numeri — tassi, percentuali, grafici — ero riuscito a tenere con me l’unica matematica che ha ancora senso:
quella in cui una casa può essere troppo piccola per i mobili,
ma mai troppo piena per un affetto in più.
Soprattutto se quell’affetto ha quattro zampe, un orecchio sbeccato,
e nasce dal desiderio ostinato di un uomo anziano
che non voleva, semplicemente, che il suo gatto morisse da solo.






