La ragazza scalza al distributore, i motociclisti in cerchio e la verità che nessuno immaginava

I motociclisti circondarono la ragazza in lacrime al distributore di benzina, e tutti iniziarono a chiamare il numero di emergenza convinti che la stessero aggredendo.

Io guardavo dalla mia vecchia furgonetta, con il motore ancora acceso. Vedevo gli uomini in giubbotti neri formare un cerchio stretto attorno a lei. Lei non poteva avere più di quindici anni, scalza, le gambe graffiate, un vestito strappato e le spalle che tremavano.

Il ragazzo della cassa agitava le mani, il telefono stretto all’orecchio. Ripeteva:
«Sì, sì, una specie di banda di motociclisti… Hanno preso una ragazza… Venite subito, per favore!»

Ma io sapevo che non era così.
Avevo visto quello che era successo cinque minuti prima, quando nessun altro guardava davvero.

La ragazza era scesa barcollando da una berlina nera, parcheggiata in fretta vicino alla strada provinciale. L’auto era ripartita sgommando appena lei aveva chiuso lo sportello, come se bruciasse le prove.

Lei era crollata accanto alla pompa numero tre, piangendo così forte da non riuscire quasi a respirare. Stringeva le braccia intorno al petto come se volesse sparire.

In quel momento era arrivata la colonna di moto.
Quindici, venti, poi altre ancora. Il “Motori e Cuore”, il gruppo con cui avevo passato quasi metà della mia vita, era di nuovo in strada per il giro di beneficenza annuale.

Mi chiamo Marco. Ho sessantotto anni e per trentacinque sono stato vigile del fuoco.
Ho iniziato ad andare in moto quando ero giovane, molto prima che le ginocchia iniziassero a farmi male a ogni cambio di stagione.

Quella mattina però non ero in moto, ma sulla mia furgonetta bianca. La mia vecchia touring era in officina, e senza il giubbotto con lo stemma del club e il casco nessuno mi riconosceva. Sembravo solo un pensionato qualunque di passaggio.

Il primo a vedere la ragazza fu Giovanni, che tutti chiamano “Gianni il Grande”. Settanta anni, ex infermiere del pronto soccorso, tre figlie femmine e una pazienza infinita.

Spense la moto, scese piano e si tolse il casco. Tenendo le mani bene in vista, camminò verso di lei senza fare movimenti bruschi.

«Signorina? Va tutto bene?»
La sua voce era calma, morbida, molto diversa da quella che ti aspetteresti da un uomo alto quasi due metri con la barba grigia e le braccia tatuate.

La ragazza alzò lo sguardo. Il mascara le colava sulle guance. Iniziò a indietreggiare.

«Per favore, non mi fate del male» sussurrò. «Vi prego, io… io non dirò niente a nessuno.»

Dietro Giovanni, gli altri avevano spento i motori uno dopo l’altro.

Non si avvicinarono a lei.
Si disposero in cerchio, con la schiena verso di lei e lo sguardo rivolto all’esterno, controllando la strada e il parcheggio.

Lo avevamo imparato anni prima durante le feste per bambini e gli eventi di beneficenza: a volte i ragazzini si spaventano, a volte hanno bisogno di uno spazio protetto. Così noi facciamo muro, ma rivolto verso il mondo, non verso di loro.

Bruno, il nostro capitano di strada, detto “Orso” per ragioni che non c’era bisogno di spiegare, si tolse il giubbotto nonostante il freddo tagliente di quella mattina di febbraio. Lo posò per terra, a un passo dalla ragazza, e poi si tirò indietro di qualche metro.

«Nessuno ti farà del male, piccola» disse con voce roca ma gentile. «Hai freddo. Questo è il mio giubbotto. Se ti va, è tuo per adesso.»

La vidi esitare, poi si gettò quasi sul giubbotto, lo raccolse e se lo strinse addosso. Sparì lì dentro: Bruno è alto un metro e novanta, con spalle che sembrano due armadi.

Dentro al bar del distributore, invece, la scena era un’altra.
Una signora si era spostata vicino alla porta, pronta a scappare.
Un uomo faceva finta di guardare le riviste ma non toglieva gli occhi dal gruppo di moto.

Il ragazzo alla cassa parlava ora con un secondo operatore.
«Sì, sì, sono in tanti… non so, forse venti, forse di più. Hanno circondato una ragazzina, è scalza, piange… sembra un rapimento, forse traffico di persone, non lo so… Presto, per favore!»

Io decisi di avvicinarmi, fingendo di controllare la pressione delle gomme al compressore.
Volevo essere a portata di voce se le cose degeneravano.

Sentii Giovanni che diceva, sempre a distanza:
«Come ti chiami?»

«Alessia» riuscì a dire tra un singhiozzo e l’altro.
«Devo tornare a casa. Devo tornare da mia mamma.»

«Dov’è casa?»

«A due ore da qui… verso la città, dopo l’autostrada. Non dovevo essere qui, non dovevo…»

I motociclisti si scambiarono uno sguardo muto.
Loro quel giorno dovevano andare nella direzione opposta, verso la montagna, per portare regali a un centro per bambini.

«Come sei arrivata qui, Alessia?» chiese Bruno, restando a distanza, le mani aperte lungo i fianchi.

Lei iniziò a piangere ancora più forte. Si strinse nel giubbotto di Bruno come in una coperta.

«Sono stata stupida» disse. «Lui l’ho conosciuto online. Diceva di avere diciassette anni. Mi ha scritto per settimane, diceva che voleva solo conoscermi, portarmi al cinema. Ieri sera è venuto a prendermi sotto casa…»

Si interruppe, cercando aria.

«Non aveva diciassette anni. Era grande. Avrà avuto almeno trenta. E non mi ha portata al cinema.»

Sentii il sangue farsi gelido.
Gli uomini del cerchio si raddrizzarono un po’, senza parlare.

«Mi ha portata in una casa, fuori città. Dentro c’erano altri uomini. Io…»
Chiuse gli occhi, stringendo le labbra. Non servivano dettagli. Tutti avevamo capito più di quanto avremmo voluto.

«A un certo punto hanno bussato. Una consegna sbagliata, credo. Qualcuno con una pizza o qualcosa del genere. Quando hanno aperto la porta io sono scappata. Ho visto le chiavi dell’auto sul tavolo, le ho prese e sono corsa. Ho guidato finché la macchina non si è fermata, qui vicino. Lui mi ha trovata che camminavo sulla provinciale. Ha detto che mi riportava a casa. Invece mi ha lasciata qui. Ha solo detto: “Arrangiati”.»

Giovanni tirò fuori il telefono.
Non chiamò subito la polizia.
Compose il numero di sua moglie.

«Lina? Amore, vieni al distributore sulla statale, quello vicino al cavalcavia. Porta con te Sara, è importante. C’è una ragazza che ha bisogno di aiuto.»

Sara è la loro figlia più grande. Lavora come assistente sociale, segue proprio i casi di minori in situazioni difficili, vittime di violenza e sfruttamento.

Fu in quel preciso momento che arrivò la prima pattuglia.
Sirena spiegata, lampeggianti accesi. Un’auto della polizia frenò di colpo e un giovane agente scese con la mano sulla fondina.

«Lontani dalla ragazza!» urlò.

I motociclisti non si mossero.
Rimasero in cerchio, fermi, le mani visibili.

«Ho detto: allontanatevi subito!»

Giovanni si girò leggermente, ma senza voltare le spalle ad Alessia. Sollevò le mani.

«Agente, questa ragazza ha bisogno di aiuto. È stata portata qui contro la sua volontà. Noi…»

«Non mi interessa chi siete, vi allontanate subito o scattano le manette!»

Alessia si alzò, il giubbotto di Bruno che sfiorava l’asfalto.

«Loro mi stanno aiutando!» gridò. «Per favore, loro non sono i cattivi!»

Ma il giovane agente era agitato, con l’auricolare che gracchiava. Stava già chiedendo rinforzi via radio, descrivendo «una ventina di motociclisti ostili che rifiutano di collaborare».

In pochi minuti arrivarono altre auto, poi altre ancora.
La piccola area di servizio si riempì di lampeggianti e voci sovrapposte.

Gli agenti formarono un semicerchio davanti ai motociclisti. Alcuni urlavano di posare i caschi, altri di andare a terra, altri ancora di spostarsi. Troppa paura, poca chiarezza.

Sentii Bruno sussurrare:
«Così finisce male.»

Fu allora che Alessia fece la cosa che, forse, salvò davvero delle vite.
Uscì dal cerchio dei motociclisti e camminò verso gli agenti, tremando ma a testa alta.

«Per favore!» gridò. «Questi uomini mi hanno salvata! I veri delinquenti sono quelli con la macchina nera, con la targa che inizia per K4X! Hanno una casa con altre ragazze dentro! Dovete ascoltarmi!»

Il giovane agente la prese per un braccio e la spostò dietro la linea di polizia.

«Adesso sei al sicuro» disse.

«Lo ero già!» protestò lei. Ma la stavano facendo salire su un’auto di servizio per “proteggerla”.

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