La ragazza scalza al distributore, i motociclisti in cerchio e la verità che nessuno immaginava

Giovanni provò ancora a parlare.
«Agenti, vi prego, almeno ascoltatela. Mentre perdiamo tempo qui, quei tipi hanno tutto il tempo per sparire con le altre ragazze.»

«A terra!» urlò uno degli agenti più anziani. «Tutti in ginocchio, mani dietro la testa!»

E loro lo fecero.
Uno dopo l’altro, quei pensionati, padri e nonni, volontari abituati a portare regali e coperte dove c’è bisogno, si misero in ginocchio sull’asfalto freddo. Mani intrecciate dietro la nuca, lo sguardo fisso davanti.

Sapevano come funzionano certe cose.
Erano colpevoli, soprattutto, di avere un aspetto che fa paura a chi non conosce la loro storia.

Io non resistetti più.
Mi avvicinai a uno degli agenti, il giovane.

«Ragazzo, ho visto tutto» dissi piano. «Quella ragazza è stata lasciata qui da qualcuno che non voleva che tornasse a casa. Questi uomini l’hanno solo coperta e protetta.»

Lui quasi non mi guardò.
«Signore, la prego, si allontani, non intralci il servizio.»

«State arrestando le persone sbagliate» insistetti. «E intanto le persone giuste scappano.»

Li ammanettarono uno per uno.
Il tiggì locale era già arrivato: cameraman, microfoni, giornalisti. Titoli pronti: “Banda di motociclisti fermata per sospetto rapimento”.

Intanto Alessia, chiusa nell’auto di servizio, non stava zitta.
Dalle finestre chiuse si sentivano urla, poi calci contro il sedile. Alla fine una agente donna aprì la porta per cercare di calmarla.

«Lui» disse Alessia indicandolo con il mento, indicando Giovanni in ginocchio. «Ha chiamato sua moglie perché venisse ad aiutarmi. Sua figlia lavora coi servizi sociali. Controllate il suo telefono!»

L’agente donna, il grado di sergente appuntato sul petto, la guardò a lungo. Lesse il nome sul giubbotto antiproiettile: si chiamava Marta Rossi.

Marta si avvicinò a Giovanni.

«È vero quello che dice la ragazza? Ha chiamato sua moglie?»

«Sì, sergente» rispose lui con calma. «Si chiama Lina. È in arrivo con nostra figlia Sara. Sara lavora con i minori, segue proprio questi casi.»

Marta frugò nella tasca del giubbotto di Giovanni, dove avevano messo il suo telefono. Vide l’ultima chiamata: “Lina – 3 minuti fa.”

Compose il numero, mettendo il vivavoce.

«Pronto? Giovanni? Ma dove sei? Abbiamo quasi raggiunto il distributore, Sara ha già preso la cartellina… La ragazza sta bene? È in pericolo?»

«Signora» intervenne Marta. «Sono il sergente Rossi della polizia. Suo marito al momento è… trattenuto. Lei sta arrivando qui con sua figlia assistente sociale, giusto?»

«Certo! Ha chiamato perché c’è una minorenne che ha bisogno di aiuto. La prego, non perdete tempo con mio marito, aiutate lei!»

Marta chiuse la chiamata. Guardò Giovanni in ginocchio, Alessia nell’auto, poi i colleghi.

«Toglietegli le manette» disse, non urlando ma con una voce che non lasciava spazio a dubbi.

«Sergente?» fece il giovane agente.

«Ho detto: togliete le manette. Tutti. Subito.»

Mentre li liberavano uno a uno, Marta tornò da Alessia con un taccuino in mano.

«Dimmi della macchina» disse con calma. «Che modello era? Hai notato qualche dettaglio della casa? Ogni cosa può essere utile.»

Alessia iniziò a raccontare.
Berlina nera, vecchio modello. La casa a circa quaranta minuti da lì, lungo una strada con pochi lampioni. Muro esterno scrostato, persiane blu, il campanello rotto. Dentro almeno tre uomini. Dall’alto si sentivano voci femminili, forse quattro o cinque ragazze.

Giovanni, che si massaggiava i polsi arrossati, si avvicinò con cautela.

«Sergente» disse. «Noi conosciamo bene queste zone, tutte le strade secondarie. Se può servirvi una mano per cercare quella macchina, il nostro gruppo è a disposizione.»

Marta lo fissò a lungo.
«Siete ex militari?»

«Un po’ di tutto» rispose lui. «Ex pompieri, ex infermieri, ex operai. Gente che ha lavorato di notte e nei giorni di festa. Facciamo giri di beneficenza, portiamo pacchi, facciamo compagnia a chi è solo.»

Lei sospirò piano.
«Ufficialmente non posso certo chiedervi di partecipare a una ricerca. Ma se… per caso… vi capitasse di fare un giro in zona e di avvistare una berlina nera con una targa che inizia per K4X, potete chiamarmi subito.»

E gli mise in mano un biglietto con il suo numero diretto.

Giovanni annuì.
«Ragazzi, in sella» disse.

Non partirono tutti, però.
Cinque rimasero al distributore con Alessia.

C’era “Dottore”, che in realtà era stato davvero medico d’urgenza. Le controllò il polso, le pupille, si sincerò che non avesse ferite evidenti.
C’era “Prete”, che non era sacerdote ma gestiva una piccola impresa e sapeva parlare con calma alle persone in crisi. Chiamò sua moglie perché portasse scarpe, vestiti puliti e una coperta.
E c’erano “Lupo”, “Nino” e “Catena”, che si limitarono a fare ciò che sapevano fare meglio: stare davanti, tra lei e il mondo, finché non fosse al sicuro.

Gli altri si divisero in squadre e partirono in tutte le direzioni.
Avevano un gruppo di messaggistica, un sistema di chiamate: in poco tempo anche altri motociclisti della zona erano stati allertati.

Dopo meno di un’ora, il telefono di Giovanni squillò.
Era “Gigante”, il più alto del gruppo.

«Marco, l’abbiamo trovata» disse dalla parte opposta della linea, ma io riuscivo a sentirlo lo stesso. «Berlina nera, targa che inizia per K4X, parcheggiata fuori da una casa con persiane blu, come ha detto la ragazza. Catena ha visto almeno tre ragazze alla finestra.»

Porsi il telefono a Marta.
«L’hanno trovata» dissi soltanto.

Nel giro di venti minuti, lì fuori c’era mezza provincia: pattuglie, auto civetta, ambulanze. La casa fu circondata, e l’intervento fu veloce.

Lì dentro trovarono sette ragazze, tutte minorenni.
Alcune erano state date per “scappate di casa”, altre erano scomparse da pochi giorni. Nessun dettaglio oltre questo è necessario. Basta sapere che, da quella mattina, non erano più in mano a quelle persone.

I “Motori e Cuore” rimasero al distributore, formando una specie di guardia d’onore quando arrivò l’ambulanza per Alessia.
I giornalisti, che fino a poco prima cercavano solo immagini di “banda pericolosa”, improvvisamente avevano bisogno di cambiare titoli e tono.

Giunsero Lina e Sara.
Sara si avvicinò ad Alessia con una coperta termosaldata e una bottiglietta d’acqua.

«Io sono Sara» disse piano. «Lavoro con ragazze che hanno passato quello che hai passato tu. Sei stata coraggiosa a scappare. Ora non sei più sola.»

Alessia ricominciò a piangere, ma le lacrime questa volta avevano un sapore diverso.
Come di sollievo.

Sentii Sara sussurrare al sergente Rossi:
«Ha bisogno di un pronto soccorso, di un esame, di una stanza tranquilla. E dei protocolli giusti, non di mille domande davanti a tutti.»

Marta annuì.
«L’ambulanza è già in arrivo. Puoi salire con lei?»

«Certo.»

Poco dopo, mentre l’ambulanza si allontanava, il mio telefono vibrò. Era un messaggio vocale di Gigante: casa perquisita, uomini fermati, ragazze portate in ospedale.

La sera stessa, i telegiornali locali raccontarono la storia in modo un po’ diverso da come avevano iniziato a filmarla: non più “banda di motociclisti fermata”, ma “gruppo di volontari in moto aiuta a salvare sette minorenni”.

Ma il vero racconto, quello completo, venne fuori qualche settimana dopo, al processo.

Alessia testimoniò. Raccontò di aver visto quei motociclisti formare un cerchio non per chiuderla dentro, ma per chiuderla fuori dal mondo pericoloso che aveva appena lasciato. Raccontò del giubbotto caldo, delle mani tenute lontane da lei per non spaventarla. Raccontò di quella telefonata a Lina e a Sara, fatta prima ancora che arrivasse la polizia.

Si presentò in tribunale con il giubbotto di Bruno, che lui le aveva regalato.
«Tienilo» le aveva detto. «Mi sta meglio addosso in estate, ma a te serve tutto l’anno.»

Il pubblico ministero le chiese:
«Avevi paura di questi uomini in moto?»

«All’inizio sì» ammise lei. «Ma poi ho guardato i loro occhi. Mi guardavano come una figlia. Come qualcosa di prezioso, da non rovinare.»

In aula, in fondo, c’erano tutti i membri del gruppo.
Erano venuti in tram, in macchina, in moto, come potevano. Nessuno li aveva obbligati. Semplicemente, sentivano che dovevano esserci.

L’avvocato difensore degli imputati cercò di dire che i suoi assistiti “aiutavano le ragazze a fuggire da famiglie oppressive”, che erano “amicizie sbagliate, non un crimine”.

Quando sembrava che il discorso si stesse facendo troppo confuso, Giovanni si alzò in piedi in fondo all’aula.

Il giudice stava per richiamarlo all’ordine, ma lui disse solo:
«Signor giudice, ho qualcosa che può essere utile.»

«Si sieda, per favore.»

«Ho un video» continuò. «Della mattina al distributore. La mia moto ha una piccola telecamera. L’avevo accesa per il giro di beneficenza, per sicurezza. Ha ripreso la macchina nera che scarica la ragazza e scappa.»

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