Ci fu silenzio.
Il giudice lo fece avvicinare al banco, con il cancelliere che prese il telefono e copiò il file. Le immagini mostrarono ciò che nessuno poteva più negare: Alessia lasciata in mezzo alla strada da sola, la macchina che fugge, i motociclisti che spengono i motori e si avvicinano con cautela.
Quelle immagini divennero prova.
Gli imputati furono condannati a molti anni di carcere.
Non bastano mai, ma erano comunque anni in cui non avrebbero potuto toccare altre ragazze.
Dopo la sentenza, Alessia li aspettò nel corridoio del tribunale.
Abbracciò Giovanni, poi Bruno, poi Dottore, Prete, tutti, uno per uno.
«Mia madre vorrebbe invitarvi a cena» disse ridendo tra le lacrime. «Tutti quanti. Dice che cucinerà per un reggimento. Ma io penso che avrà bisogno del tavolo lungo del salone del condominio.»
«Non vogliamo disturbare» iniziò Giovanni.
«Per favore» insistette lei. «Lei ha bisogno di dirvi grazie. E anch’io.»
La domenica successiva, le moto – quelle funzionanti – e qualche auto di supporto arrivarono una dietro l’altra in una via tranquilla della periferia.
I vicini scesero ai balconi a guardare. All’inizio, quando sentirono il rombo dei motori, qualcuno chiuse le persiane. Poi, vedendo quegli uomini aiutarsi a vicenda a togliere i caschi, sistemando giacche e bastoni da passeggio, la curiosità prese il posto della paura.
La mamma di Alessia, Anna, li aspettava alla porta del palazzo, con il grembiule ancora addosso e gli occhi lucidi.
«Mi avete riportato a casa mia figlia» disse a Giovanni. «Io posso solo cucinarvi qualcosa. Non è abbastanza, ma è tutto quello che so fare.»
«Signora, sua figlia si è salvata da sola» rispose lui. «Noi abbiamo solo fatto quello che qualunque padre avrebbe fatto.»
La cena durò ore.
I vicini iniziarono a portare sedie, dolci, bottiglie.
I bambini chiedevano di salire in moto per qualche foto.
I più anziani del quartiere si misero a raccontare di quando anche loro avevano avuto una Vespa o una piccola moto.
Durante il dolce, Alessia si alzò e batté la forchetta sul bicchiere per attirare l’attenzione.
«Devo dire una cosa» disse.
La stanza si fece silenziosa.
«Tre settimane fa pensavo che la mia vita fosse finita. Che non sarei mai più tornata a casa. Poi un gruppo di sconosciuti ha deciso che valevo la pena di essere protetta. Non sapevano chi fossi, non sapevano se dicesse la verità. Hanno solo visto una ragazzina spaventata e hanno deciso che la sua paura era importante.»
Da dietro la sedia tirò fuori un giubbotto nuovo, della sua misura.
Sul retro c’era una scritta cucita a mano: “Protetta da Motori e Cuore”.
«Bruno mi ha regalato il suo giubbotto, ma ho pensato che fosse giusto averne uno mio» disse sorridendo.
Non c’era un occhio asciutto in quella stanza.
Giovanni si alzò.
«Alessia» disse. «Questo ti rende parte della nostra famiglia. Motori e Cuore non protegge solo gli sconosciuti. Protegge chi, da quel giorno in poi, è uno di noi.»
Passarono i mesi.
Alessia parlò in una serata di sensibilizzazione organizzata dal comune e dall’associazione dove lavorava Sara. Raccontò la storia senza dettagli morbosi, ma con tutti i passaggi importanti: lo sconosciuto online, la casa, la fuga, il distributore, il cerchio di uomini in giubbotto, l’arrivo della polizia, il cambio di sguardi.
Il gruppo Motori e Cuore continuò i suoi giri.
Ma da allora fece anche un’altra cosa: iniziò a offrire supporto alle associazioni che si occupano di minori in difficoltà.
Accompagnavano operatrici sociali in quartieri poco tranquilli.
Facevano la guardia fuori da centri di accoglienza quando c’erano minacce o persone insistenti.
Avevano già contribuito, nel giro di un anno, a mettere in salvo altre ragazze, altri ragazzi, semplicemente stando presenti.
Il giovane agente che quella mattina era arrivato con la mano sulla fondina – Luca si chiamava – chiese, dopo qualche mese, di parlare con Giovanni.
«Quello che è successo mi ha insegnato qualcosa» disse. «Che c’è una differenza enorme tra sembrare pericolosi ed esserlo davvero. Se non vi avessimo ascoltato in tempo…»
Ora Luca, nel tempo libero, gira con loro. Ha preso la patente per la moto, accompagna Sara in alcune uscite nelle scuole per parlare ai ragazzi dei pericoli della rete e dei finti amici.
Il distributore dove tutto è iniziato ha cambiato gestore.
Il nuovo proprietario, però, ha tenuto una cosa del vecchio: una piccola targa vicino all’ingresso.
“Qui, un giorno d’inverno, un gruppo di motociclisti ha ricordato a tutti che le apparenze ingannano: chi fa rumore non è sempre il pericolo, e chi fa paura a prima vista può essere il muro che ti protegge.”
Giovanni e Bruno non vogliono sentirsi chiamare “eroi”.
«Siamo solo padri, nonni, fratelli» ripete sempre Giovanni. «E quel giorno abbiamo visto in Alessia non una sconosciuta, ma la figlia che tutti potremmo avere. Quando vedi la tua famiglia negli occhi di chi ha paura, l’unica cosa che puoi fare è metterti davanti.»
Alessia ora studia per diventare educatrice, come Sara. Vuole aiutare altre ragazze come lei. Va ancora ai raduni dei Motori e Cuore, con il suo giubbotto.
E ogni anno, nel giorno in cui fu lasciata al distributore, il gruppo organizza un giro speciale. Non importa quanti chilometri facciano e da dove vengano: alla fine passano sempre da quel piccolo piazzale sulla provinciale.
Il gestore prepara il caffè, i vicini si affacciano, qualche pattuglia si ferma a salutare. Alessia arriva con qualunque mezzo trovi.
«Siete i miei angeli custodi» dice sempre.
E Giovanni risponde, ogni volta, la stessa cosa:
«No, Alessia. Sei tu che ci ricordi perché non abbiamo smesso di andare in moto. Non per far rumore, ma per far sentire meno soli quelli che hanno paura.»
L’ultima volta che li ho visti tutti insieme, Alessia non era sola.
Accanto a lei c’era una ragazza più piccola, forse sedici anni al massimo, con lo sguardo di chi ha visto troppo in poco tempo.
«Lei è Emma» disse Alessia. «Ha bisogno di sapere che nel mondo non ci sono solo persone cattive.»
Ho visto, ancora una volta, quegli uomini alzarsi, allargare il cerchio, lasciare spazio perché Emma potesse sedersi al centro, al sicuro.
Non hanno fatto grandi discorsi.
Hanno solo fatto quello che sanno fare meglio: restare.
A volte si salvano vite cercando una macchina sulla strada.
Altre volte se ne salvano semplicemente stando intorno a una ragazza che ha paura, finché non capisce che non è più sola.
Questo è quello che fanno, in silenzio, persone che il mondo spesso giudica solo dall’aspetto.
Proteggono. Stanno di guardia. Tornano, ogni volta che serve.
Anche quando qualcuno, vedendoli da lontano, pensa ancora che il primo numero da fare sia quello dell’emergenza.






