Niente torta. Niente ospiti. Per il mio settantasettesimo compleanno, l’unico rumore fu lo scatto della mia valigia, mentre mio marito alzava il volume del TG delle 20, indifferente alla mia esistenza.
Era un martedì di novembre a Milano. Fuori, il cielo era di quel grigio piombo, tipico della città quando l’inverno si avvicina. La pioggia batteva dolcemente contro i vetri.
Nella nostra cucina, in un bell’appartamento d’epoca in zona Magenta, l’odore era quello di sempre: minestrone e noia.
Ero seduta al tavolo in noce massiccio. Le mie mani erano posate piatte sulla tovaglia ricamata. Guardavo le mie mani. Mani che, per quarant’anni, avevano stirato camicie, curato ginocchia sbucciate e asciugato lacrime che non erano le mie. Oggi tremavano leggermente. Non per la vecchiaia, ma per l’adrenalina.
Sentii la chiave girare nella serratura. Clic, clac. Giorgio era rientrato. Appese l’impermeabile all’attaccapanni, sistemò l’ombrello.
— Che tempaccio! — brontolò, senza nemmeno guardarmi.
Entrò in cucina, mi fece un vago cenno con la testa — il tipo di saluto che si riserva a una vecchia conoscenza o a una pianta grassa — e si sedette.
— La metropolitana era un carnaio, — sospirò, afferrando il telecomando della piccola televisione posata sulla credenza. — Che si mangia? Ancora minestrone?
Oggi era il mio settantasettesimo compleanno.
Ho aspettato. Ho aspettato un “Buon compleanno, Elena”, un bacio sulla guancia, o anche solo uno sguardo. Ma non c’è stato nulla. Solo la sigla del telegiornale che riempiva il vuoto siderale tra noi due.
In quel preciso istante, qualcosa si è spezzato dentro di me. Non è stato un grande fracasso. È stato silenzioso, come una candela che si spegne per mancanza di ossigeno. Per decenni mi ero convinta che fosse quella la “stabilità”. Che una donna della mia generazione non si lamenta. Che la solitudine in due valesse meglio della solitudine e basta.
Ma vedendo Giorgio soffiare sul suo cucchiaio, ignorando totalmente che fosse il giorno della mia nascita, la verità mi ha colpita in pieno: La peggiore solitudine non è essere soli, è essere con qualcuno che non ti vede più.
— Giorgio, — dissi.
La mia voce era calma, cosa che sorprese me per prima. Lui non staccò gli occhi dallo schermo.
— Hmm? Passami il sale, per favore. — Me ne vado. — Dove? In panetteria? Piove, Elena. — No. Vado via da qui. Ti lascio.
Giorgio lasciò cadere il cucchiaio. Urtò il piatto con un rumore secco. Finalmente girò la testa verso di me, con l’aria sbalordita di un uomo che vede crollare il Duomo.
— Ma che stai dicendo? Hai perso la testa? Hai settantasette anni! Dove vuoi andare?
La sua voce salì di tono, carica di quell’autorità che regnava sulla nostra casa dal 1980.
— Siediti, Elena! Smettila con queste sciocchezze. Abbiamo la casa, la pensione… E la gente? Cosa penseranno i vicini? I figli?
Mi alzai. Le mie ginocchia scricchiolarono, ma mi sentii immensa. Andai nell’ingresso e presi la piccola valigia rossa che avevo nascosto quella mattina stessa. Qualche vestito, il mio quaderno di poesie, le foto dei miei genitori e i miei risparmi.
— Sono rimasta seduta tutta la vita, Giorgio, — risposi dolcemente. — Ho aspettato che i bambini crescessero. Ho aspettato la tua pensione. Ho aspettato un gesto. Ma sono stanca di aspettare.
Posai le chiavi di casa sul tavolo. Il rumore del metallo risuonò come una sentenza.
— Ma non sai nemmeno fare un bonifico online! — gridò lui, alzandosi a metà. — Tornerai piangendo! Morirai di freddo!
Era triste. Non aveva paura di perdere me. Aveva paura di perdere il suo comfort. Aveva paura di doversi riscaldare la zuppa da solo.
Aprii il pesante portone d’ingresso. L’aria fresca delle scale mi accarezzò il viso.
— Preferisco essere sola con me stessa, Giorgio, che sola con te.
Richiusi la porta. Piano. Senza sbatterla. Come si chiude un libro che si è finito di leggere.
Presi un taxi sotto il palazzo. Avevo affittato una piccola mansarda al sesto piano senza ascensore, in un quartiere popolare. I muri erano spogli, c’era solo un lucernario che dava sui tetti bagnati.
Quando arrivai, era buio. Mi sedetti sul lettino. Il silenzio era assoluto. Niente televisione. Niente lamentele sulla politica.
Improvvisamente, la paura mi invase. Che cosa hai fatto? mi sussurrò una voce. Sei vecchia. Sei sola a Milano.
Ma poi, respirai. Inspirare. Espirare.
Quell’aria era la mia. Quel silenzio era il mio. Mi alzai e mi preparai una tisana sul fornello elettrico. Guardai attraverso la finestrella le luci della città che scintillavano in lontananza.
Avevo 77 anni. Non avevo la torta. Niente candeline. Ma bevvi il mio primo sorso di tè caldo e sorrisi.
Ho capito che la vita non finisce né a 60, né a 70 anni. La vita finisce il giorno in cui smettiamo di essere i protagonisti della nostra esistenza per diventare le comparse di quella di qualcun altro.
Si crede spesso che, a causa dell’età, delle abitudini o del giudizio degli altri, si debba restare dove si sta appassendo. Ma non è mai troppo tardi per reclamare la propria dignità.
Una mansarda piena di pace vale più di un grande appartamento pieno di indifferenza. La vostra vita vi appartiene. Fino all’ultimo respiro.
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