«Il rumore più forte del mio settantasettesimo compleanno non è stato la porta che si chiudeva, ma il silenzio che c’era dopo. Ed è da quel silenzio che comincia davvero la mia vita.»
Questa è la parte della storia che nessuno racconta mai: cosa succede dopo che una donna anziana prende una valigia rossa e se ne va.
La prima notte nella mansarda non dormii quasi per niente.
Il letto cigolava a ogni movimento, il materasso era più sottile della mia pazienza, e il vento fischiava sotto il lucernario come un vecchio treno in partenza. Le luci di Milano arrivavano attenuate, come se qualcuno avesse tirato una tenda sul mondo.
Eppure, in quel disagio, c’era qualcosa di nuovo: ogni rumore, ogni ombra, mi apparteneva. Non dovevo interpretare sospiri, sbuffi, commenti. Non dovevo decifrare silenzi carichi di giudizio. Il silenzio, per la prima volta in tanti anni, era neutro. Non feriva.
Mi svegliai all’alba, con il collo indolenzito e le gambe rigide. Mi sentivo come dopo un trasloco. Un trasloco dell’anima.
Sul tavolino avevo appoggiato le poche cose che avevo portato: il quaderno di poesie, le foto dei miei genitori, un portafoto con i bambini piccoli — ormai adulti, con la loro vita. E una bustina di contanti: i miei risparmi segreti, messi da parte in anni di “non ti preoccupare, penso a tutto io”.
Sorrisi amaramente. Ora dovevo davvero pensarci io.
Aprii il quaderno. Sulla prima pagina avevo scritto, anni prima, una frase sentita chissà dove:
“Un giorno ti sveglierai e non ci sarà più tempo per fare le cose che hai sempre desiderato.”
Sotto, la mia grafia incerta aveva aggiunto: “Oggi?”
Il primo problema concreto arrivò alle otto del mattino: il mio stomaco.
Non avevo fatto la spesa.
Mi misi il cappotto, la sciarpa, infilai la borsa sotto il braccio e scesi le sei rampe di scale. Ogni pianerottolo aveva un suo odore: detersivo economico, sugo al pomodoro, fumo di sigaretta, caffè. Lontanissimo dal profumo blando e costoso dell’ingresso di zona Magenta.
Affacciandomi sul marciapiede, mi sentii come una turista. Le vetrine non erano eleganti: piccoli negozi di quartiere, una panetteria con i cartelli scritti a mano, un bar con le sedie scompagnate, un’edicola, un negozio di casalinghi dove sembrava che nulla costasse più di dieci euro.
Entrai nella panetteria.
— Buongiorno, signora, — disse un ragazzo sui trent’anni, con i capelli ricci e il grembiule infarinato. — Cosa le do?
Esitai. Non ero abituata a essere chiamata “signora” da qualcuno che mi guardasse davvero.
— Un filone di pane… e una brioche vuota, per favore, — dissi. — E… posso sedermi lì un momento?
Indicai la piccola panca vicino alla vetrina.
— Certo, prenda pure.
Mi sedetti con la brioche in mano, ancora calda. Mentre strappavo il primo pezzetto, mi accorsi che stavo tremando. Il ragazzo mi guardò di sbieco.
— Tutto bene?
In Italia si chiede “tutto bene?” come si dice “buongiorno”. Ma la sua voce non era automatica. Sembrava davvero curioso.
— Ho cambiato casa ieri, — risposi, come se bastasse.
Lui sorrise.
— Nel palazzo qui davanti?
Annuii.
— Benvenuta nel quartiere, allora. Io sono Marco. Se ha bisogno di qualcosa… qui ci siamo sempre.
Quel “ci siamo sempre” mi scaldò più del caffè che non avevo ancora ordinato.
Tornai in mansarda con il pane sotto braccio e una sensazione strana: per la prima volta dopo tanto tempo, qualcuno mi aveva dato il benvenuto. Non come nuora, suocera, madre, moglie. Ma come persona.
Passai la mattinata a sistemare le mie poche cose. Le foto dei bambini finirono sul comò. I vestiti nell’armadio corto, dove le giacche si piegavano sul fondo. Le poesie sul comodino.
Poi arrivò il momento che temevo: il cellulare.
Era lì, sul fondo della borsa, come un animale addormentato. Lo presi, lo accesi. Cominciarono subito le notifiche.
Tre chiamate perse di Giorgio.
Un messaggio del figlio maggiore: “Papà mi ha detto che hai fatto una scenata. Che sta succedendo?”
Uno più breve della figlia: “Mamma? È vero che sei andata via? Dove sei?”
Sentii una fitta al petto. Non ero preparata a essere, improvvisamente, “il problema” della famiglia.
Scrissi una risposta a mio figlio:
“Non ho fatto una scenata. Ho preso una decisione. Sto bene. Quando vuoi parlare, chiamami.”
Poi alla figlia:
“È vero. Sono andata a vivere per conto mio. Non sono scappata. Mi sono scelta. Ti voglio bene.”
A Giorgio non risposi.
Il telefono iniziò a squillare quasi subito. Il suo nome sullo schermo. “Giorgio casa”.
Lo guardai lampeggiare finché smise.
Per quarant’anni avevo risposto al primo squillo. Quella mattina, per la prima volta, lasciai squillare.
Mi tremavano le mani, ma mi sentivo viva.
I giorni successivi furono strani, pieni di prime volte. La prima volta che presi l’autobus da sola senza chiedere a Giorgio quale fosse la linea giusta. La prima volta che entrai in un ufficio postale e chiesi istruzioni per pagare una bolletta senza dire “mio marito di solito…”. La prima volta che firmavo un contratto di affitto solo con il mio nome.
Scoprii che essere anziana in città è come essere invisibile e visibile allo stesso tempo.
Invisibile per chi ti urta sul tram senza scusarsi, per chi ti passa davanti in fila, per chi parla sopra la tua testa come se non stessi capendo.
Visibile solo quando occupi un posto a sedere che qualcuno più giovane, ma più stanco di te, vorrebbe.
Ma in mezzo a questa folla indifferente, iniziai anche a intravedere altre figure come me. Donne con le borse della spesa in rete, sciarpe colorate, mani segnate dalla vita. Uomini soli al bar con il giornale, che tiravano fuori ogni moneta con cura.
Non ero l’unica a ricominciare tardi. Solo che io avevo osato cambiare scenario.
Un pomeriggio, mentre tornavo dal supermercato con due buste troppo pesanti per le mie spalle, sentii una voce alle mie spalle.
— Vuole che l’aiuti, signora?
Mi voltai. Una donna, più o meno della mia età, ma con i capelli tinti di rosso acceso e un cappotto verde, mi guardava sorridendo. Aveva gli occhi vivaci di chi non si arrende.
— Se non le pesa… — risposi, cedendole una busta.
— Io sono Rosaria, — disse. — Quarto piano, scala B. La vedo spesso passare. È nuova, vero?
Annuii. — Sì, mi sono trasferita da poco.
— Lasci che indovini, — continuò lei con una smorfia ironica. — Marito convinto di essere il re della casa, figli lontani, e lei che ha fatto la brava moglie per una vita?
Scoppiai a ridere. Rise anche lei.
— Più o meno, — dissi. — Ma adesso il regno l’ho lasciato a lui.
Rosaria mi strizzò l’occhio.
— Benvenuta nel club delle sopravvissute, allora. Ogni giovedì pomeriggio ci troviamo al bar all’angolo. Siamo in tre, a volte quattro. Beviamo un caffè, parliamo, ci lamentiamo, ridiamo. Se le va, venga. Nessuna tessera. Nessuna quota. Solo donne che non ne possono più di essere solo “nonne di”.
Quella proposta mi colpì più di qualunque invito a una festa di compleanno.
— Forse verrò, — risposi.
— Non dica “forse”, — replicò. — A una certa età, il “forse” è già un “no”. Dica “vediamo”. Ha più speranza.
La prima volta che andai a quel bar era ancora novembre. Il cielo basso, le luci accese già alle quattro del pomeriggio.
Sedute a un tavolino, con tre tazzine e una teiera, c’erano Rosaria e altre due donne. Una, minuta, con i capelli bianchi raccolti in uno chignon perfetto. L’altra, più robusta, con un paio di occhiali rossi grandi e rotondi.
— Eccola! — esclamò Rosaria. — La nostra nuova acquisto. Come ti chiami?
Mi ero dimenticata da quanto tempo nessuno mi chiedeva il nome in quel modo, come se fosse importante.
— Elena.
— Io sono Marta, — disse quella con lo chignon. — Ho settantadue anni e due ginocchia nuove, ma il cuore è rimasto del 1968. — E scoppiò a ridere.
— Io Anna, — aggiunse quella con gli occhiali rossi. — Sessantanove anni. Ex maestra. Ho passato la vita a dire ai bambini di credere in se stessi. Mi sono accorta troppo tardi che avevo dimenticato di dirlo a me.
Quella frase mi colpì come uno specchio.
Parlammo per ore. Di mariti presenti e assenti, di pensioni tirate, di figli che chiamano solo quando hanno problemi, di nipoti che vivono lontano. Ma parlammo anche di cinema, di libri, di viaggi che non avevamo fatto e che forse non avremmo fatto mai, ma che ci piaceva ancora immaginare.
Per anni ero stata circondata da persone, eppure non mi ero mai sentita così ascoltata come in quel bar un giovedì pomeriggio.
La mia famiglia, nel frattempo, oscillava tra il silenzio e la confusione.
Mio figlio mi chiamò una sera.
— Mamma, ma sei seria? — chiese, con la voce di un ragazzino spaventato intrappolato nel corpo di un uomo di cinquant’anni. — Papà è fuori di sé. Dice che lo hai abbandonato.
Mi venne da chiedere: “E voi quando avete smesso di vedere che mi stavo spegnendo?”. Ma mi trattenni.
— Non l’ho abbandonato, — risposi lentamente. — Mi sono abbandonata per anni, questo sì. Adesso sto cercando di recuperare.
— Ma sei anziana, — insistette lui. — Come farai se ti senti male? Se ti cade qualcosa? Se hai bisogno?
Mi stupii della calma della mia risposta.
— Ho vissuto quarant’anni preoccupandomi di cosa sarebbe successo agli altri se cadevano. Ora mi prendo il rischio di cadere io e vedere cosa succede. Non voglio che veniate a prendermi per dovere. Voglio che veniate a trovarmi per scelta.
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