Ci fu un silenzio lungo, dall’altra parte della linea. Poi lui sospirò.
— Non ti capisco, — disse. — Ma sei sempre mia madre. Dimmi almeno dove abiti.
Gli detti l’indirizzo.
— Prima o poi verrò, — aggiunse in fretta. Ma non disse quando.
Mia figlia, invece, scriveva messaggi brevi, come se avesse paura di toccare un nervo scoperto.
“Se sei felice, va bene.”
“Non litigate troppo, ti fa male al cuore.”
“Posso venire un giorno con i bambini?”
Le rispondevo sempre: “Le mie porte sono aperte.”
Nel frattempo, però, imparavo a stare con me stessa senza aspettare un campanello.
Un sabato mattina, mentre sistemavo le mie poche tazze nell’armadio, sentii bussare leggermente alla porta.
Aprii. Un ragazzino di dieci, undici anni, con il cappuccio della felpa sulla testa, mi guardò dal corridoio.
— Scusi… — borbottò. — Mia nonna abita di fianco a lei, ma è in ospedale. Devo portarle dei vestiti, e mia mamma dice che non posso lasciare il sacchetto lì per terra. Può tenerlo lei?
Indicò la porta accanto alla mia. Sapevo che la signora che ci abitava, una vedova, era stata portata via in ambulanza qualche giorno prima.
— Certo, — risposi. — Come ti chiami?
— Luca.
— Io sono Elena. Quando torna tua nonna glieli porto.
Luca mi ringraziò e scappò giù per le scale. Guardai il sacchetto di plastica nelle mie mani: due camicie da notte ordinate, un paio di ciabatte, una spazzola. La normalità di una vita momentaneamente sospesa.
Mi colpì un pensiero semplice: a un certo punto della vita, tutti abbiamo bisogno che qualcuno ci custodisca qualcosa. Anche solo un sacchetto di vestiti.
Lo misi con cura nella mia stanza, accanto al mio quaderno di poesie.
Fu proprio Marta, un giovedì al bar, a notare quel quaderno.
— Cos’è? — chiese, indicando la copertina rossa consumata che spuntava dalla mia borsa.
— Niente, — dissi d’istinto. — Solo… qualche poesia.
— Le tue? — insistette.
Annuii, imbarazzata. Scrivevo da anni, in segreto. Piccoli pensieri, rime senza pretese. Non le avevo mai fatte leggere a nessuno. Non perché fossero brutte. Perché erano mie. Troppo mie.
— Portale la prossima volta, — disse Anna. — Facciamo un “giovedì culturale”. Meglio delle soap in TV, no?
Provai a dire di no, ma loro due e Rosaria furono irremovibili. La settimana successiva, con il cuore che martellava, portai il quaderno. Le mani mi tremavano mentre leggevo ad alta voce una poesia scritta la sera del mio compleanno, in mansarda.
Quando alzai gli occhi, vidi qualcosa che non mi aspettavo: silenzio. Ma un silenzio pieno, rispettoso.
— Elena, — sussurrò Marta. — Hai passato la vita a parlare a bassa voce. Ma quando scrivi, si sente forte.
Sentii gli occhi bruciare. Una lacrima scese, ostinata.
— A nostra età, — aggiunse Rosaria, — ci hanno già dato tutte le etichette possibili: “pensionata”, “nonna”, “vedova”, “separata”. Ma tu, qui dentro, — e toccò il quaderno — sei solo Elena.
Quella sera, tornando a casa, capii una cosa: avevo lasciato un marito, sì. Ma forse stavo finalmente incontrando me stessa.
Giorgio, nel frattempo, aveva trovato il modo di farsi sentire.
Un pomeriggio trovai una busta infilata sotto la porta della mansarda. Lo riconobbi dalla grafia: quella calligrafia dritta e decisa che avevo invidiato da ragazza.
“Non capisco cosa ti sia preso”, scriveva. “Dopo una vita insieme te ne vai così. La gente parla. I vicini chiedono. I figli sono confusi. Ti rendi conto di che figura mi fai fare? Comunque la casa è sempre qui. Quando ti sarai calmata, torna. Facciamo finta che non sia successo niente.”
Rimasi a fissare soprattutto l’ultima frase. “Facciamo finta che non sia successo niente.”
Era esattamente quello che avevo deciso di non fare più.
Presi una penna. Sotto, scrissi:
“È proprio questo il punto, Giorgio. È successo. È successo che per anni mi sono sentita sola vicino a te. È successo che non ti sei accorto del mio compleanno. È successo che hai avuto più paura del giudizio dei vicini che di perdere me. Non posso far finta di niente. Non sono scappata. Ho solo smesso di restare ferma dove non esistevo più.”
Non gliela spedii subito. Piegai la lettera e la misi nel quaderno di poesie. A volte le parole hanno bisogno di riposare prima di andare nel mondo.
Un giorno di dicembre, mentre preparavo una minestra nella mia piccola cucina — sì, ancora minestrone, ma questa volta scelto da me — il telefono squillò.
Era un numero che conoscevo a memoria: mia nipote, la figlia di mia figlia. Quattordici anni, capelli con le punte colorate, sempre con le cuffie.
— Nonna? — disse, con la sua voce ancora un po’ incerta tra l’infanzia e l’età adulta.
— Amore mio, — dissi, e mi resi conto di quanto mi fosse mancato quel suono.
— La mamma piange sempre, — sbottò subito lei. — Dice che ha paura per te, che sei da sola, che è colpa sua se te ne sei andata. Io non capisco niente. Però… posso venire a trovarti? Voglio vedere dove vivi.
Mi sedetti.
— Certo che puoi venire, — risposi. — Ma devi sapere una cosa: non sono andata via per far soffrire tua madre. Né te. Sono andata via per smettere di soffrire io.
— Lo so, — mormorò lei. — Cioè, non lo so davvero. Però… quando la mamma litiga con il nonno, io penso sempre: “Perché non se ne va?”. Quando mi ha detto che tu l’avevi fatto, ho pensato: “Ah, quindi si può”.
Rimasi senza parole. A volte ci dimentichiamo che i più giovani ci guardano. Che imparano da noi, anche quando non diciamo niente.
— Vieni, — ripetei. — Ti preparo una torta. Non l’ho avuta al mio compleanno, ma posso farla per quando arrivi tu.
Rideva. — Nonna che fa la rivoluzionaria con la valigia rossa, — disse. — Le mie amiche non ci crederebbero.
La rivoluzionaria. A settantasette anni. Mi venne da ridere e da piangere insieme.
Quando mia nipote arrivò, qualche giorno dopo, era pomeriggio. Portava un giubbotto imbottito troppo grande, probabilmente prestato dalla madre. Salì le sei rampe di scale senza fiatare. Io, dietro, ansimavo.
— Caspita, nonna, — sbuffò. — Questo palazzo è una palestra.
Aprii la porta. Lei entrò, guardando tutto con curiosità. Il letto, le mensoline improvvisate con delle cassette di legno, il lucernario, il tavolino con due sedie diverse.
— È piccola, — disse, — ma è carina. Sembra una casetta delle bambole… però per adulti tristi che diventano felici.
Mi mostrò il suo zaino.
— Ti ho portato una cosa, — disse. — Sono i miei disegni. Tu scrivi poesie, vero? La mamma dice che hai sempre scritto. Io disegno. Magari un giorno facciamo un libro insieme.
Il mio cuore, in quel momento, trovò una nuova ragione per battere.
La guardai sedersi sul letto, spargere fogli colorati, raccontarmi dei suoi sogni, delle sue paure, di una domanda che le faceva male: “È obbligatorio restare con qualcuno solo perché lo si è scelto a vent’anni?”
Le risposi con l’unica verità che avevo imparato tardi:
— Non è obbligatorio restare dove si smette di crescere. Né a vent’anni, né a quaranta, né a settanta. Il coraggio non ha età. Il rispetto per se stessi nemmeno.
Lei annuì, seria. Scattò una foto al lucernario.
— Voglio ricordarmi di questo posto, — disse. — È il posto dove la mia nonna ha scelto se stessa.
Quella sera, dopo che se n’era andata, mi sedetti sul letto e aprii il quaderno. Rilessi la lettera per Giorgio. Prese peso, significato.
Capivo che forse lui non avrebbe mai davvero compreso. Che per una generazione come la sua, una moglie che se ne va a settantasette anni è uno scandalo, un’anomalia, quasi una malattia. Ma compresi anche che non era più mio compito guarire la sua immagine del mondo.
Il mio unico dovere, ormai, era verso quella donna che vedevo riflessa nello specchio ogni mattina. Quella donna dalle spalle un po’ curve, le mani sottili, gli occhi stanchi ma finalmente vivi.
La donna che, per la prima volta, aveva deciso di essere la protagonista della propria storia.
Ripensai a tutte le donne che avevo visto in treno, al mercato, in sala d’attesa dal medico. Donne che parlavano sottovoce, che si scusavano di esistere, che dicevano “ormai per me è tardi”.
Presi la penna e scrissi l’ultima frase della giornata, grande, al centro di una pagina nuova:
“Non esiste un’età giusta per andare via da dove si muore lentamente. Esiste solo il giorno in cui ti accorgi che meriti di vivere davvero. Il mio è stato a settantasette anni. Il tuo può essere quando vuoi.”
Chiusi il quaderno, mi preparai una tisana, e mi misi sotto le coperte. Fuori Milano respirava, con il suo cielo grigio e le sue luci tremolanti.
Io, in quella mansarda piccola e imperfetta, respiravo con lei.
Non avevo torta, non avevo candeline. Ma avevo una valigia rossa ai piedi del letto, pronta non per fuggire, ma per ricordarmi una cosa semplice e immensa:
la libertà, a qualunque età, pesa meno del rimpianto.






