«Vai a cercarti un altro tavolo. Questo è per la famiglia, non per le figlie adottive.»
La voce di mia sorella Valeria tagliò il brusio del ristorante come un coltello. Eravamo da La Terrazza delle Colonne, uno dei locali più eleganti del centro di Milano. Sentii qualche testa girarsi verso di me, curiosa. Al tavolo, tutti risero.
I miei genitori, Anna e Giovanni, mio fratello Marco e il marito di Valeria si unirono alle risate, come se fosse la battuta più divertente del secolo. Io rimasi in piedi con la pochette in mano, le guance in fiamme, le gambe che mi tremavano.
I lampadari di cristallo scintillavano sopra di noi, la luce calda cadeva sulle tovaglie bianche e sui bicchieri sottili. Ma dentro di me sentivo solo freddo.
Mi chiamo Elisa, ho 27 anni.
Vivo con questa famiglia da quando ne avevo cinque, da quando mi hanno adottata. Sono passati 22 anni.
Ventidue anni a sentirmi ricordare che non appartenevo davvero a loro, che ero diversa, che valgo un po’ meno degli altri. L’unica persona che mi abbia mai fatto sentire importante è sempre stata mia nonna Teresa, la madre di mia madre adottiva. Sedeva all’estremità del tavolo, con un’espressione strana sul viso. Non rideva.
«Valeria, basta,» dissi piano, cercando di restare dignitosa.
«Ma non essere così sensibile,» intervenne mia madre Anna, agitando la mano curata con noncuranza. «Stiamo solo scherzando. Lo sai come è fatta tua sorella.»
Sapevo benissimo come era fatta Valeria.
A 32 anni aveva perfezionato l’arte di farmi sentire piccola, sempre con un sorriso sulle labbra, mantenendo l’apparenza di una famiglia “unita”. Da bambina lei aveva avuto la camera più grande, i vestiti nuovi, il liceo privato, l’università prestigiosa pagata fino all’ultimo centesimo. Io avevo avuto i vestiti passati, la scuola statale, l’istituto tecnico e poi l’università serale, con le rate del prestito da pagare da sola.
Lei veniva lodata per risultati mediocri. Io venivo criticata anche quando facevo il massimo.
«Siediti, Elisa,» ordinò mio padre Giovanni senza alzare troppo la voce. «Stai facendo una scenata.»
Mi sedetti. Deglutii il nodo che mi bruciava in gola. Quella cena doveva essere una “festa di famiglia” per celebrare l’ultimo affare di Valeria: un grosso investimento immobiliare che i miei genitori le avevano aiutato a finanziare.
Aiutavano sempre Valeria.
Tre anni prima, quando avevo chiesto un prestito per avviare la mia piccola agenzia di grafica, avevano riso. Mi avevano detto di essere “realista”, che certe cose non sono per “ragazze come me”.
La serata andò avanti, con le conversazioni che mi giravano intorno come se fossi trasparente.
Valeria si vantava della sua nuova macchina di lusso. Marco parlava della sua promozione in banca. I miei genitori li guardavano con gli occhi pieni d’orgoglio, facevano domande, si interessavano, si congratulavano.
Quando provai a dire che avevo appena firmato un contratto importante, un lavoro da 50.000 euro in sei mesi, mia madre mi interruppe:
«Bene, cara, sono contenta.» Poi si voltò verso Marco. «Dimmi di più del tuo bonus, che cifra ti hanno dato?»
E di nuovo scomparvi.
Quando arrivò il dolce, mi ero già ritirata dentro di me. Sentivo quella vecchia sensazione di intorpidimento che conoscevo troppo bene. Era il mio ruolo in quella famiglia: l’estranea, il caso di beneficenza, quella che serviva per farli sentire generosi.
Il cameriere si avvicinò con il conto. Il cuore mi cadde nello stomaco quando posò la cartellina di pelle proprio davanti a me.
Lo guardai, sorpresa. «Scusi… credo si sia sbagliato.»
Valeria scoppiò a ridere, una risata squillante e tagliente. «Non ti abbiamo detto niente? Paghi tu stasera. Consideralo il tuo contributo alla famiglia. Visto che sei sempre quella che prende e non dà mai.»
«Che cosa prendo, scusa?» La voce mi uscì strozzata. «Non vi ho mai chiesto nulla.»
«Davvero?» Mia madre alzò le sopracciglia, contando sulle dita. «Un tetto sulla testa da bambina, il cibo, i vestiti… Ti abbiamo dato tutto, Elisa. Il minimo che tu possa fare è offrirci la cena.»
Mi tremavano le mani mentre aprivo la cartellina.
Il totale mi fece girare la testa: 3.270 euro.
Avevano ordinato i vini più costosi, antipasti a non finire, filetti e pesce pregiato, dolci su dolci. Marco aveva preso tre dessert “tanto per provare”.
«Non posso permettermelo,» sussurrai.
«Certo che puoi,» cinguettò Valeria. «Hai appena detto di aver preso un cliente da 50.000 euro. Questi per te ormai sono spiccioli.»
La verità era ben diversa. Quei 50.000 euro erano spalmati su sei mesi di lavoro, e la maggior parte era già destinata alle spese dell’attività, all’affitto e al pagamento dei prestiti dello studio. Una sola cena come quella avrebbe prosciugato i miei risparmi.
Ma non potevo permettermi un’altra “scenata”. Non volevo dare loro un altro motivo per chiamarmi ingrata, difficile, drammatica.
Con le mani che mi tremavano, tirai fuori la carta di credito e la misi nella cartellina.
Il cameriere la prese subito. Io finsi di sorridere, bevvi un sorso d’acqua, finsi che tutto andasse bene. Valeria parlava già della loro prossima vacanza in Toscana, i miei genitori avevano già deciso di unirsi a loro. Nessuno pensò a chiedermi se mi sarebbe piaciuto venire. Non lo facevano mai.
Quando il cameriere tornò con la ricevuta, firmai quasi senza vedere i numeri.
3.270 euro per il privilegio di essere umiliata da persone che avrebbero dovuto amarmi.
«Beh, è stato proprio piacevole,» disse mia madre, tamponandosi le labbra con il tovagliolo. «Stesso posto il mese prossimo?»
Il mese prossimo.
Pensavano davvero che questo sarebbe diventato un appuntamento fisso.
Aprii la bocca per dire finalmente “basta”, ma una voce mi precedette.
«Un momento, per favore.»
Tutti si zittirono.
Mia nonna Teresa, che era rimasta in silenzio per tutta la sera, si era alzata in piedi dalla sua sedia in fondo al tavolo. A settantotto anni, aveva ancora una presenza che riempiva la sala. I capelli bianchi raccolti con cura, la schiena dritta, lo sguardo lucido.
Il ristorante intero sembrò trattenere il respiro.
Nonna Teresa era sempre stata diversa dal resto della mia famiglia.
Mentre i miei genitori e i miei fratelli mi trattavano come un peso, lei era quella che veniva alle recite di scuola, che si ricordava sempre il mio compleanno, che mi chiedeva davvero come stavo… e ci teneva alla risposta.
Era anche la persona più ricca che avessi mai conosciuto: una donna che si era costruita da sola, partendo da un piccolo laboratorio farmaceutico fino a un gruppo internazionale. Negli ultimi tempi però parlava poco e osservava tanto. L’avevo sorpresa spesso a guardare i miei familiari con uno sguardo lungo, pensieroso, quasi severo.
«Mamma, che c’è?» chiese Anna, infastidita. «Stavamo giusto andando via.»
«Sedetevi. Tutti.» La voce di nonna Teresa non era alta, ma aveva una fermezza che fece irrigidire perfino mio padre. «Ho qualcosa da dire. E mi ascolterete.»
Valeria alzò gli occhi al cielo, ma non si mosse. Marco si sistemò la camicia, fingendo calma. I miei genitori si scambiarono uno sguardo confuso.
Lo sguardo di nonna passò su ognuno di loro, poi si fermò su di me. Nei suoi occhi vidi qualcosa che mi colpì allo stomaco: tristezza… e una grande delusione verso gli altri.
«Vi osservo da anni,» cominciò, con voce ferma ma fredda. «Osservo come trattate Elisa. Come l’avete sempre trattata.»
«Mamma, ti prego,» sospirò Anna. «Non è il momento.»
«Stai zitta.» Il tono fu tanto tagliente che mia madre tacque all’istante.
«Ho 78 anni,» continuò nonna Teresa, «e negli ultimi mesi ho pensato molto alla mia eredità. A cosa succederà ai miei beni quando non ci sarò più.»
Il tavolo si immobilizzò. Mio padre posò il bicchiere con un piccolo tintinnio. L’espressione di Valeria cambiò appena: un lampo di avidità negli occhi.
«Sapete tutti come funziona adesso,» proseguì nonna. «Il mio testamento attuale prevede che la maggior parte del patrimonio vada ad Anna, e poi a voi nipoti. È quello che abbiamo sempre dato per scontato.»
Vidi il sorriso di Valeria allargarsi, quasi non fosse capace di nasconderlo.
«Ma ho fatto preparare un nuovo testamento,» disse nonna Teresa, tirando fuori una busta dalla borsa. «Firmato e autenticato ieri.»
Il silenzio diventò pesante.
«Non puoi essere seria,» sbottò Marco. «Per cosa? Per una battuta stupida?»
«Una battuta?» La risata di nonna fu breve e amara. «Vi ho visto ridere e umiliare Elisa per oltre vent’anni. Vi ho visto escluderla, sminuirla, trattarla come se valesse meno degli altri. E stasera le avete messo in mano un conto da oltre tremila euro, dopo una serata passata a ridere sulla sua pelle.»
«Stavamo solo scherzando,» intervenne Valeria, ma la sua voce non era più così sicura. «Lei esagera sempre.»
«Per voi è divertente fare del male?» chiese nonna, con calma glaciale. «È divertente far sentire una persona inutile? È questo, per voi, “spirito di famiglia”?»
Il mio cuore martellava forte. Nonna si mosse lentamente, girando intorno al tavolo, e venne a fermarsi accanto a me. Posò la mano sulla mia spalla, leggera ma ferma.
«Elisa è l’unica in questa famiglia che abbia dimostrato vero carattere,» disse. «Ha lavorato per tutto quello che ha. Si è costruita un lavoro dal nulla, senza un centesimo di aiuto da parte vostra. È gentile, talentuosa, tenace. Voi avete fatto di tutto per spezzarla e lei è rimasta in piedi.»
«Mamma, stai esagerando,» mormorò mio padre Giovanni. Ma la sua voce non aveva la solita sicurezza.
«Davvero?» Nonna sollevò le sopracciglia. «Anna, quando è stata l’ultima volta che hai chiesto a Elisa della sua vita? Davvero, intendo. Ascoltandola.»
Mia madre aprì la bocca, poi la richiuse.
«Marco, l’hai mai congratulato sinceramente con tua sorella per qualcosa che ha fatto? Ti sei mai fermato ad ascoltarla quando parlava di un suo successo?»
Mio fratello fissò il piatto.
«Valeria, hai passato anche solo un giorno a trattare Elisa come una sorella e non come una serva?»
Il viso di Valeria si arrossò di colpo.
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