L’organo riempiva la Basilica di Santa Lucia con note profonde, quasi solenni, mentre io stavo in piedi davanti all’altare, le mani che tremavano contro la seta avorio del mio abito da sposa.
Davanti a me, quasi duecento volti – parenti, amici, colleghi – aspettavano soltanto il momento in cui sarei diventata la signora Lorenzo Rinaldi.
La luce di fine mattina filtrava dai vetri colorati, disegnando macchie di rosso, blu e oro sul pavimento di marmo.
Tutto sembrava perfetto. Tutto tranne il mio cuore.
Non batteva per la gioia.
Martellava per una verità terribile, appena scoperta, che minacciava di spaccarmi in due. Da quanto tempo mi stavano mentendo?
In prima fila, dietro il mare di volti emozionati, intravedevo mia madre.
Il suo vestito verde smeraldo cadeva alla perfezione, il sorriso era quello di una madre orgogliosa.
Sembrava l’immagine stessa dell’amore materno.
Solo ventiquattro ore prima, io avrei creduto a quel sorriso.
Ventiquattro ore prima, vivevo ancora in un mondo in cui le madri proteggevano le figlie.
In cui l’amore era qualcosa di sacro.
Lorenzo mi strinse la mano. I suoi occhi castani, profondi e caldi, sembravano colmi di una tenerezza che, fino a poco tempo fa, avrei scambiato per devozione.
«Pronta, Chiara?» sussurrò.
La sua voce aveva ancora quella sicurezza tranquilla che mi aveva fatto innamorare di lui tre anni prima.
Lo guardai in volto – quella mascella che avevo accarezzato tante volte con le dita, quella bocca che mi aveva promesso “per sempre” – e sentii il mio mondo diventare limpido, duro e gelido, come un cristallo appena rotto.
«Sì, sono pronta,» risposi piano. La mia voce era incredibilmente ferma, nonostante il terremoto che sentivo nel petto. «Più di quanto tu possa immaginare.»
Tre mesi prima, ero ridicolmente, ingenuamente felice.
Mi chiamo Chiara Conti, ho ventotto anni, e fino a poco tempo fa ero convinta di avere la vita sotto controllo.
Ero la figlia “perfetta”: laureata con il massimo dei voti in lettere in una prestigiosa università di Roma, lavoro come editor senior in una grande casa editrice di narrativa a Milano, e da poco fidanzata con Lorenzo Rinaldi, il “ragazzo d’oro” della nostra città.
Il nostro fidanzamento era stato da favola.
Lorenzo, trentuno anni, elegante e affascinante, figlio di un noto avvocato civilista e di una donna impegnata nel volontariato.
Lavorava in uno studio legale importante, girava in un’auto di lusso, e mi aveva chiesto di sposarlo durante l’intervallo di un concerto di musica classica, sapendo quanto amassi quelle serate.
«Avrete una vita bellissima insieme,» aveva sospirato mia madre, Anna, quella sera, ammirando l’anello di diamanti che brillava alla luce del lampadario. «La famiglia Rinaldi è così rispettata. Hai fatto bene, tesoro.»
Avrei dovuto capire qualcosa da quella frase.
Non «sarai felice» o «lui è perfetto per te», ma «hai fatto bene».
Come se avessi concluso un buon affare, non trovato l’amore della mia vita.
Mio padre, Mario Conti, era stato più misurato, ma ugualmente contento.
Da anni era una figura molto stimata in parrocchia e in città: organizzava incontri per famiglie, teneva conferenze sui valori tradizionali, sul matrimonio, sul rispetto.
Vedere la sua unica figlia sposare un uomo serio, di buona famiglia, sembrava confermare tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
«Lorenzo è un bravo ragazzo,» mi aveva detto, stringendomi in un abbraccio caldo dopo cena. «Vedo quanto ti ama, Chiara. E soprattutto vedo quanto tu ami lui.»
Amore.
Quella parola, qualche mese dopo, mi sarebbe sembrata amara come veleno.
I preparativi del matrimonio avevano occupato le settimane successive.
Mia madre si era buttata nell’organizzazione con un’energia quasi feroce.
Voleva controllare ogni dettaglio: i fiori, il catering, la musica, il fotografo, persino gli appuntamenti per le prove dell’abito.
«È il sogno di ogni madre,» ripeteva sfogliando riviste e facendo telefonate infinite. «Organizzare il matrimonio perfetto per la propria figlia.»
Le ero grata, almeno all’inizio.
Anche quando scavalcava i miei gusti.
Quando avevo proposto un bouquet di fiori di campo, lei aveva insistito per rose bianche e peonie.
Quando volevo solo un piccolo quartetto d’archi, lei aveva trovato un ensemble più grande.
Quando avevo accennato all’idea di scrivere personalmente le nostre promesse, mi aveva convinta che le formule tradizionali erano «più eleganti».
«Fidati di me, amore,» diceva sempre con quel sorriso che pensavo di aver ereditato da lei. «La mamma sa cosa è meglio.»
Lorenzo sembrava divertito dalla nostra dinamica familiare.
Passava spesso a casa dei miei, senza preavviso, e li conquistava con i racconti del suo lavoro nello studio legale e con complimenti sulla cucina di mia madre.
Lui e Anna si trattenevano spesso in cucina a chiacchierare, mentre io finivo qualche telefonata di lavoro o rivedevo manoscritti in salotto.
Sentivo le loro risate arrivare da dietro la porta, leggere, complici.
«Tua madre è straordinaria,» mi disse una sera, mentre passeggiavamo in un viale alberato vicino a casa, lo stesso dove, anni prima, mi aveva chiesto di essere la sua ragazza. «È così attenta a tutto, così desiderosa che tutto sia perfetto per noi.»
«È sempre stata così,» risposi, stringendogli la mano. «Quando ero piccola, passava settimane a preparare le feste di compleanno. Ogni dettaglio doveva essere impeccabile.»
«E lo sarà anche il matrimonio,» si fermò e mi prese il viso tra le mani. «Come sei perfetta tu.»
Avrei dovuto farmi qualche domanda.
Avrei dovuto notare quanto spesso parlava di lei.
Come i suoi occhi a volte indugiassero un po’ troppo sul volto di mia madre quando lei rideva.
Come sapesse sempre quale vino portare a cena per farla sorridere di soddisfazione.
Ma ero innamorata. E l’amore, stavo per imparare, ci rende meravigliosamente ciechi.
La prima crepa comparve tre settimane prima del matrimonio.
Ero passata dai miei dopo il lavoro per sistemare il piano dei posti a tavola. Avevo le braccia piene di biglietti di conferma e il portatile carico di manoscritti.
Quando aprii la porta di casa con le mie chiavi, tutto era insolitamente silenzioso.
«Mamma? Papà?» chiamai, posando le borse all’ingresso.
«In cucina, tesoro,» rispose la voce di mia madre.
Ma c’era qualcosa di strano nel suo tono: affannato, quasi agitato.
La trovai in piedi davanti al lavello, di spalle, a lavare piatti che… sembravano già puliti.
I suoi capelli scuri, di solito perfettamente sistemati, erano un po’ in disordine. Quando si voltò, aveva le guance arrossate.
«Oh, Chiara! Non ti aspettavo così presto.»
«Sono le 18:30,» guardai l’orologio. «Vengo sempre a quest’ora il mercoledì.»
«Certo, certo,» si asciugò le mani su uno strofinaccio, evitando il mio sguardo. «Tuo padre è in parrocchia, c’è una riunione.»
Qualcosa non tornava.
La cucina non aveva il solito profumo di sugo o di caffè.
C’era un odore diverso, più forte, maschile.
Un dopobarba costoso, magari. Uno che non avevo mai sentito addosso a mio padre.
«C’era qualcuno qui?» chiesi, sedendomi al tavolo con le buste degli inviti.
«Cosa? No, no. Solo io.» Si girò di nuovo verso il lavello. «Com’è andata la giornata, amore?»
Stavo per lasciar perdere. Davvero.
Quasi.
Poi notai una tazza sul bancone: uno dei pezzi del nostro servizio “buono”, quello che si usava solo per gli ospiti.
Era ancora tiepida.
«Mamma, di chi è questa tazza?» Le sue spalle si irrigidirono impercettibilmente.
«Mia, ovvio. Tu la sera bevi il tè.»
«Sì, ma di solito usi la tazza con i fiorellini…»
«Oggi mi andava questa. Ero stanca, avevo bisogno di un po’ di caffè.»
La bugia cadde tra noi come un coltello.
Mia madre non era mai stata brava a mentire.
Conoscevo i suoi segnali da sempre: niente contatto visivo, la voce che trema appena, l’ossessione di avere qualcosa da fare con le mani.
Ma la amavo. E mi fidavo di lei.
Così scelsi di crederle.
«Va bene,» dissi soltanto, aprendo il primo biglietto di conferma. «Vediamo dove sistemare tutti questi ospiti.»
La serata proseguì in modo apparentemente normale.
Ma qualcosa era cambiato. La vedevo guardare il telefono troppo spesso, tamburellare le dita sul tavolo senza motivo.
Quando Lorenzo mi scrisse verso le otto per dirmi che avrebbe fatto tardi in studio e che ci saremmo visti il giorno dopo, notai come, all’improvviso, il corpo di mia madre si rilassasse.
La seconda crepa arrivò una settimana dopo.
Lorenzo era diventato distante, nervoso.
Diceva che in studio c’era un periodo di lavoro pesante.
Aveva disdetto due cene, e saltato la prova delle torte per il matrimonio.
Un pomeriggio, preoccupata, chiamai in studio.
La segretaria disse che era uscito prima.
Presi l’auto e andai direttamente a casa sua.
Viveva in un palazzo moderno, in una zona elegante della città.
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