Il portinaio mi salutò per nome, come al solito.
In ascensore, il tragitto al quinto piano mi parve infinito.
Bussai. Nessuna risposta.
Usai le chiavi che mi aveva dato.
«Lorenzo, va tutto bene?»
L’appartamento era semi buio, ma avevo visto la sua auto nel parcheggio.
Chiamai ancora, girando tra il soggiorno e la cucina.
Sul tavolino c’era un bicchiere da vino. Uno solo.
E sul bordo, una traccia di rossetto.
Non era il mio colore.
«Lorenzo?»
Provai ad aprire la porta della camera da letto. Era chiusa a chiave.
Mi gelai.
Non l’aveva mai chiusa. Mai.
«Sono qui,» la sua voce arrivò attutita dalla porta. «Non sto bene, credo di avere un’intossicazione.»
«Apri, vengo a darti una mano.»
«No, no. Non voglio contagiarti. Ci sentiamo domani, va bene?»
Rimasi lì, davanti a quella porta chiusa, a fissare il legno.
In tre anni, Lorenzo non aveva mai rifiutato il mio aiuto quando era malato.
Era il tipo che voleva qualcuno vicino anche per un semplice raffreddore.
Ancora una volta, però, scelsi la fiducia invece del sospetto.
«Rimettiti presto,» dissi piano. «Ti amo.»
«Ti amo anch’io,» rispose lui.
Ma quelle parole arrivarono un attimo troppo tardi.
La verità, però, ha un modo tutto suo di venire a galla.
Come l’acqua che trova ogni crepa in un muro.
Due giorni prima del matrimonio, la diga cedette.
Ero in ufficio, cercando inutilmente di concentrarmi su un manoscritto di poesia medievale, quando squillò il telefono.
Sul display comparve il nome di mia madre.
«Chiara, tesoro, ho bisogno di un favore.»
«Dimmi, cos’è successo?»
«Ho lasciato in macchina alcuni programmi della messa per il matrimonio, e adesso devo pranzare con una signora del gruppo liturgico. Puoi passare da casa e prenderli? Sono in una busta sul sedile del passeggero.»
«Certo, nessun problema.»
Il tragitto fino a casa dei miei durò venti minuti, in mezzo al traffico.
Entrai dal cancello con il telecomando che usavo da sempre e parcheggiai dietro l’auto di mia madre.
La sua macchina era aperta, come al solito.
Aprii lo sportello del passeggero, e vidi subito la busta manila che mi aveva descritto.
Allungai la mano… e qualcosa incastrato tra i sedili attirò il mio sguardo.
Un piccolo taccuino di pelle nera.
Non ci avrei fatto caso, se non fosse stato per una scritta sulla copertina, in una calligrafia che avrei riconosciuto ovunque: quella di mia madre.
C’era scritto il mio nome.
Le dita mi tremavano quando lo aprii.
La prima pagina aveva una data di tre mesi prima, proprio dopo l’annuncio ufficiale del mio fidanzamento.
“Lorenzo è tutto quello che avrei dovuto sposare. Bello, di successo, della ‘giusta’ famiglia.
Invece mi sono accontentata di una vita normale con Mario e il suo lavoro modesto.
Forse non è troppo tardi. Forse, per una volta, merito anch’io qualcosa di bello.”
Il taccuino mi scivolò quasi dalle mani.
Rimasi seduta nel sedile di guida dell’auto di mia madre, fissando quella pagina mentre il mondo sembrava inclinarsi.
Con un gesto rigido, ripresi il taccuino e continuai a leggere.
“Mi guarda come Mario mi guardava tanti anni fa, prima che la routine lo consumasse.
Quando Lorenzo mi fa un complimento, ricordo cosa vuol dire sentirmi desiderata.
Oggi è rimasto qui dopo che Chiara è andata in ufficio.
Abbiamo parlato per ore di libri e viaggi.
Dice che una donna come me è sprecata in una vita così piccola.
Ha ragione.”
Pagina dopo pagina, la calligrafia precisa di mia madre raccontava la lenta, deliberata seduzione del mio fidanzato.
“Oggi mi ha baciata.
Che Dio mi perdoni, l’ho baciato anch’io.
Abbiamo fatto l’amore nel suo appartamento mentre Chiara era al suo gruppo di lettura.
Ha detto che non ha mai provato una passione così.
Mi sono sentita viva di nuovo.”
Lessi ogni parola con un misto di nausea e incredulità.
Lorenzo, l’uomo che diceva di voler passare la vita con me, che mi parlava di figli, di casa, di futuro…
E mia madre, la donna che mi aveva insegnato cosa fosse la fedeltà.
Insieme.
Contro di me.
L’ultima pagina era datata il giorno prima.
“Domani sera, la notte prima del matrimonio, verrà qui mentre Mario è alla riunione per l’addio al celibato.
Sarà la nostra ultima volta prima che Chiara diventi sua moglie.
Dopo dovremo stare più attenti.
Ma ormai siamo andati troppo avanti per fermarci.”
Chiusi il taccuino.
Rimasi immobile, con il rumore distante degli irrigatori dei giardini e le voci dei bambini in bicicletta per il quartiere.
Tutto era normale, all’esterno.
Dentro di me, no.
Dentro di me non era rimasto niente di intero.
Da quanto tempo?
Da quanto tempo ridevano alle mie spalle?
Ripensai a tutte le cene, a tutti i pranzi, ai loro sguardi che avevo ignorato.
Ripensai a mio padre che preparava il discorso per accompagnarmi all’altare, ignaro di tutto.
Ripensai a me, al mio abito appeso nell’armadio, alle promesse che stavo per pronunciare.
Le lacrime arrivarono all’improvviso: calde, rabbiose, con il sapore del sale e del tradimento.
Piangevo per la ragazza che ero stata fino a qualche ora prima, quella che credeva che la sua famiglia fosse il suo rifugio.
Piangei finché il respiro non divenne un singhiozzo spezzato, finché il trucco non colò lungo le guance, finché dentro non rimase solo una cosa: una chiarezza fredda, tagliente.
Loro avevano scelto l’uno l’altra al posto mio.
Adesso sarei stata io a scegliere me stessa, al posto loro.
Quella notte non tornai nel mio appartamento.
Mi presentai alla reception di un albergo in centro con una valigia piccola e un sorriso finto.
Pagai in contanti e diedi un nome falso, dicendo al portiere che volevo fare una sorpresa a mio marito per il nostro anniversario.
La bugia mi uscì dalle labbra con una facilità che mi spaventò.
Forse stavo solo imparando da loro.
In camera, spalancai la valigia; poi sparsi tutto sul letto come se stessi preparando un’indagine:
il taccuino di mia madre,
la stampa di alcuni movimenti della carta di credito condivisa che usavamo per le spese del matrimonio,
una lista, scritta a mano, di tutti i segnali che avevo ignorato.
Il profumo maschile in cucina.
Il bicchiere con il rossetto in casa di Lorenzo.
Le continue cene “di lavoro”.
La sua improvvisa competenza sui vini che piacevano tanto a mia madre.
Ripensai anche alla loro insistenza sul rito tradizionale, senza promesse personali.
Forse temevano che, scrivendo le mie parole, avrei detto qualcosa che li avrebbe messi a disagio.
Ordinai qualcosa da mangiare in camera.
Seduta a gambe incrociate sul letto, mangiando pasta insipida da un vassoio, iniziai a pianificare la loro fine.
La vecchia Chiara li avrebbe affrontati in privato.
Avrebbe pianto, chiesto spiegazioni, forse con il tempo si sarebbe persino lasciata convincere a perdonare.
La vecchia Chiara credeva che l’amore potesse aggiustare qualunque cosa.
Ma la vecchia Chiara era morta quel pomeriggio, nell’auto parcheggiata davanti a casa, con il taccuino di sua madre tra le mani.
La nuova Chiara aveva capito che alcune ferite sono troppo profonde per essere curate con un semplice “mi dispiace”.
Non si trattava solo di un fidanzato infedele.
Non solo di una madre che aveva tradito il padre e la figlia.
Si trattava di due persone che avevano deciso, consapevolmente, di usare me come copertura, di rendermi parte dell’inganno.
Avevano progettato di continuare la loro storia dopo il matrimonio.
Non mi avevano sottratto solo la felicità, ma anche la dignità.
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