«Sei splendida, Chiara. Davvero. Non ho parole.»
Il fotografo e le ragazze ebbero la delicatezza di uscire dalla stanza.
Rimanemmo soli.
Presi le mani di mio padre.
Queste mani mi avevano insegnato a camminare, a pedalare, a cucinare la pasta al pomodoro, a credere che le persone, in fondo, fossero buone.
«Papà,» dissi, e sentii la voce incrinarsi. «Devo dirti una cosa prima che entriamo in chiesa.»
«Certo, tesoro. Che succede? Sei in ansia? Sei ancora in tempo per darmi buca, eh,» scherzò, cercando di alleggerire.
Invece di ridere, tirai fuori dalla borsa da sposa il taccuino di pelle nera.
Glielo misi in mano.
«L’ho trovato ieri nella macchina della mamma.»
All’inizio lui sembrò solo confuso.
Poi iniziò a leggere.
Vidi il colore svanire dal suo volto.
Le labbra socchiuse, le sopracciglia che si increspavano.
Le mani che tremavano sulla carta.
«Chiara…» sussurrò a un certo punto. «Questo non può essere vero. Tua madre non…»
«Guarda le date, papà. Leggi tutto.»
Si sedette lentamente su una sedia, come se le gambe a un tratto non lo reggessero più, e voltò pagine su pagine.
Io mi inginocchiai accanto a lui, l’abito che si apriva sul pavimento come una pozzanghera di panna.
Ci fu un lungo silenzio.
«Da quanto lo sai?» chiese infine, con la voce spezzata.
«Da ieri. Mi dispiace. Mi dispiace che tu lo sappia così.»
Mi guardò. Dentro i suoi occhi vidi crollare trent’anni di certezze, di discorsi tenuti alle famiglie, di serate passate a spiegare quanto fosse sacro il matrimonio.
«Cosa faremo?» mormorò.
Mi alzai, presi fiato.
«Andremo all’altare,» dissi piano. «E lasceremo che tutti vedano chi sono davvero Anna e Lorenzo.»
«Chiara, no. Pensa allo scandalo, alle chiacchiere…»
«Lo scandalo non l’abbiamo creato noi,» risposi. «Loro l’hanno creato. Noi abbiamo solo deciso di non coprirlo.»
Lo vidi lottare dentro di sé.
Tutta la sua educazione, tutta la sua generazione gli aveva insegnato che i problemi di famiglia “si lavano in casa”.
Che la facciata viene prima di tutto.
«Ci sono quasi duecento persone qui,» disse piano.
«Duecento persone che ci vogliono bene,» ribattei. «E che meritano di sapere la verità prima di assistere a una farsa.»
«La mia reputazione…»
«La tua reputazione sarà quella di un uomo che ha rifiutato di farsi prendere in giro.
Che ha scelto la dignità, non il silenzio.»
Qualcuno bussò alla porta.
«Cinque minuti, poi apriamo le porte della basilica!» annunciò la coordinatrice del matrimonio.
Papà si alzò lentamente.
Per un attimo ebbi paura che crollasse.
Invece raddrizzò le spalle, come quando doveva parlare al microfono davanti alla sala piena.
Mi guardò con una luce nuova negli occhi.
Dolore, sì. Ma anche qualcosa che somigliava all’orgoglio.
«Sei più coraggiosa di me,» disse piano.
«Ho imparato dal migliore,» risposi.
Mi offrì il braccio.
Lo presi.
Uscimmo dalla stanza, pronti a entrare insieme nella chiesa… non per celebrare, ma per dire la verità.
Attraverso i vetri delle porte vidi la basilica piena.
Le panche occupate da persone che avevano fatto chilometri per esserci.
L’altare coperto di rose bianche e peonie, come aveva voluto mia madre.
Il quartetto d’archi stava suonando il canone di Pachelbel, le note che si innalzavano verso le volte della navata.
Lorenzo era lì, davanti all’altare, nel suo abito scuro perfetto, la cravatta in tinta con il mio bouquet.
Sorrideva, circondato dai testimoni.
In prima fila, mia madre.
Bellissima nel suo abito verde, un fazzoletto di pizzo tra le dita, le lacrime già pronte negli occhi.
Un quadro impeccabile.
La coordinatrice aprì le porte.
La musica cambiò nel tema della marcia nuziale.
Tutti si alzarono in piedi.
«Pronta?» sussurrò papà.
Serrando il suo braccio, risposi: «Sì.»
Facemmo il primo passo sul tappeto bianco.
Sentii i mormorii, vidi i sorrisi, i telefoni tirati fuori per immortalare l’ingresso della sposa.
Qualcuno commentò a bassa voce l’abito, qualcun altro si asciugò già le lacrime.
Lo sguardo di Lorenzo, quando mi vide, si accese.
Se non avessi saputo la verità, avrei giurato che in quegli occhi ci fosse amore.
Anna portò il fazzoletto agli occhi, commossa.
Avrei potuto quasi crederle, se non avessi letto cosa aveva scritto la sera prima sul taccuino.
Che attrice straordinaria, pensai. Meglio di quelle che passano in televisione.
Arrivammo davanti all’altare.
Papà posò la mia mano in quella di Lorenzo, come vuole il rito.
Quel gesto, che doveva rappresentare un padre che “affida” la figlia, per me fu solo la consegna di un’illusione.
Il sacerdote, un uomo buono che mi conosceva da bambina, prese la parola.
«Fratelli e sorelle, siamo qui riuniti per celebrare l’unione tra Lorenzo e Chiara…»
Lasciai che le sue parole scorressero.
Non ascoltavo davvero.
Aspettavo “il” momento.
«Il matrimonio,» diceva, «non è una decisione da prendere alla leggera, ma con rispetto, consapevolezza e sincerità…»
Sincerità, ripetei nella mente.
Che parola ironica, pronunciata proprio davanti a loro.
Poi arrivò la frase tradizionale.
Quella che in mille film è sempre accompagnata da un silenzio sospeso.
«Se qualcuno tra voi conosce un motivo per cui questi due non dovrebbero essere uniti in matrimonio, parli ora o taccia per sempre.»
Avrei potuto parlare già lì.
Alzare la voce e raccontare tutto, davanti a un altare ancora intatto.
Ma non volli dar loro nemmeno quel minimo di avvertimento.
Rimasi zitta.
Lasciai che il sacerdote proseguisse.
Gli ospiti tirarono un sospiro di sollievo divertito, come se quel momento fosse solo una formalità romantica.
Il sacerdote si voltò verso Lorenzo.
«Lorenzo, vuoi prendere Chiara come tua legittima sposa, per amarla e rispettarla nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, finché morte non vi separi?»
Lui mi guardò negli occhi.
La voce non gli tremò.
«Lo voglio.»
Finché morte non vi separi.
Se non fosse stato tragico, avrei quasi riso.
Poi toccò a me.
«Chiara, vuoi prendere Lorenzo come tuo legittimo sposo, per amarlo e rispettarlo nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, finché morte non vi separi?»
Quello era il momento.
Il bivio.
Potevo dire “Lo voglio” e rendermi complice della loro menzogna.
Oppure potevo bruciare tutto.
Guardai la navata colma di volti, le persone che mi avevano visto crescere, i colleghi, i vicini, i parenti.
Guardai mio padre, in prima fila, il taccuino chiuso tra le mani, lo sguardo fisso su di me.
Guardai mia madre.
«In realtà,» dissi, facendo un passo verso il microfono, «prima di rispondere… vorrei dire una cosa.»
Il silenzio fu immediato.
Persino il quartetto smise di suonare.
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