Eppure, quando tornai in casa all’alba, con l’odore di stalla ancora attaccato ai capelli e alle mani, la realtà non era diventata improvvisamente poetica. Era sempre la stessa cucina fredda, la stessa corrente assente, lo stesso silenzio spesso pieno di cose non dette.
Solo che ora quel silenzio non mi faceva più sentire “ospite”. Mi faceva sentire responsabile.
La stufa a legna era quasi spenta. Papà ci buttò dentro due pezzi di legna con un gesto antico, senza teatralità, come se il mondo si fosse sempre retto su cose piccole fatte nel momento giusto.
Io mi sedetti al tavolo. Il telefono era un pezzo di plastica inutile, il Wi-Fi un ricordo lontano, e per la prima volta da quando ero arrivato non mi venne nemmeno la tentazione di controllare nulla.
Papà versò il caffè dalla moka scaldata sulla stufa. Era amaro, tiepido, perfetto.
Bevemmo senza parlare. Fu lui a rompere per primo la quiete, ma non con un discorso: con una frase che sembrava buttata lì, e invece era un ponte.
“Devo tornare a vedere Tosca.”
“Vengo io,” dissi, prima ancora di pensarci.
Mi guardò di taglio, come se volesse capire se lo dicevo per pietà o per scelta. Non dissi altro: mi alzai e presi la lanterna.
Fuori, la tempesta aveva lasciato un mondo irriconoscibile. La neve era una distesa alta e sporca di vento, accumulata in onde contro i muri, schiacciata in lastre dure come sale.
Il cielo era di quel bianco crudele dell’inverno dopo la furia: pulito, muto, come se nulla fosse successo. Ogni passo scricchiolava, ogni respiro bruciava.
Arrivammo alla stalla e aprire quella porta fu come entrare in un altro pianeta: caldo umido, fiato animale, fieno, terra viva. Il puledro era lì, in piedi, ancora un po’ storto sulle gambe come un tavolo montato male, ma vivo.
Gli occhi grandi e scuri seguivano Tosca come se lei fosse l’unico punto fermo dell’universo. Papà restò un secondo immobile, con la lanterna alzata, e io lo vidi alleggerirsi.
Non sorrise, no. Ma l’aria intorno alle sue spalle si sciolse, come quando un uomo smette di trattenere il respiro senza accorgersene.
“Bravo,” mormorò, non si capiva se al puledro o al destino.
Poi si chinò, appoggiò una mano sul collo della cavalla e parlò piano, come si parla a chi ti ha fatto un favore enorme senza chiedere niente in cambio. Io guardavo quel gesto e pensavo: ecco, ecco cos’è che mi mancava.
Non la montagna, non la cascina. Ma l’idea che qualcuno, da qualche parte, faccia le cose bene anche se nessuno lo vede.
Per un’ora controllammo tutto: paglia asciutta, acqua non gelata, porta del box chiusa bene. Il vento che s’infilava da una fessura papà lo tappò con uno straccio e una tavoletta, due chiodi, un colpo di martello.
Io mi offrii di fare e lui mi lasciò fare, ma con quel modo suo di guidarmi senza umiliarmi.
“Non spingere così forte.”
“Perché?”
“Perché si rompe.”
Era la sua filosofia in tre parole.
Fuori, la giornata iniziò a muoversi non nel modo moderno — notifiche, appuntamenti, chiamate — ma nel modo reale: cose da sistemare prima che il freddo riprenda. E allora arrivò il resto.
Il tubo della pompa che non dava più, la legna da spostare al coperto, la recinzione da controllare, un ramo caduto che aveva piegato un palo. Papà camminava con il passo di chi conosce ogni sasso del proprio terreno, io dietro impacciato, scivolando a tratti come un cittadino in visita a un pianeta che non gli appartiene.
Eppure non mi sentivo stupido. Mi sentivo apprendista.
A metà mattina sentimmo un rumore lontano: un motore, un camion. Papà si fermò e inclinò la testa, io feci lo stesso come se potessi imparare a “sentire” anche io.
Dal fondo della strada apparve un furgone vecchio sporco di neve che avanzava piano come un animale stanco. Dietro, un altro. Poi un trattore.
“È Gino,” disse papà.
“Chi?”
“Un vicino. Uno che non parla molto.”
Come se quello fosse un requisito per essere affidabili.
I mezzi arrivarono fino al cortile e gli uomini scesero senza bisogno di invito. Cappelli tirati giù, guanti grossi, facce segnate: nessun “Buon Natale” cantilenato, solo un cenno.
“Avete corrente?” chiese uno.
Papà scosse la testa.
“Il palo giù alla curva è venuto giù,” disse l’altro. “Stiamo liberando. Poi vediamo di tirare su qualcosa alla buona finché non arriva chi deve arrivare.”
Io stavo lì, con le mani in tasca, pronto a offrire soldi, pranzi, qualsiasi cosa “cittadina” mi venisse in mente. Papà mi bloccò con uno sguardo.
Non si paga così. Qui ci si presenta, si lavora, e basta.
Presi una pala. Uno dei vicini mi guardò e mi valutò senza cattiveria, come si valuta un cavallo nuovo.
“Tu sei il figlio,” disse.
“Sì.”
“Bene. Allora spalare ti farà bene.”
Non era un insulto. Era un augurio.
Per ore liberammo la strada interna, aprendo un passaggio fino al punto dove i cavi si erano abbassati e un ramo aveva spezzato mezzo sostegno. Papà parlava poco, ma quando parlava era essenziale.
Io sentivo la schiena urlare, le mani riempirsi di vesciche sotto i guanti, il fiato diventare fumo. E in mezzo a quella fatica mi accorsi di una cosa ridicola e bellissima: non pensavo a Milano.
Non pensavo alle mail. Non pensavo a cosa “avrei dovuto” fare. Pensavo al prossimo colpo di pala, alla neve da spostare, alla vita che qui non si rimanda.
A un certo punto, mentre trascinavamo un ramo enorme, papà inciampò. Fu un attimo, una micro-sbandata quasi impercettibile, ma io la vidi.
Il suo ginocchio cedette appena e lui si aggrappò al manico della pala come a un’àncora. Mi gelai più di quanto mi gelasse l’aria.
“Papà.”
“Sto bene,” disse subito.
La frase automatica di tutti i padri del mondo.
Mi avvicinai e abbassai la voce, per non farlo sentire “osservato” dagli altri. Vidi la verità dietro la maschera: non era che non sentisse dolore, era che non voleva diventare un problema.
“Appoggiati un attimo.”
“No.”
“Non è una richiesta.”
Mi guardò e in quegli occhi c’era una cosa che mi fece male: la sorpresa che io fossi lì… davvero lì. Si appoggiò al furgone per un minuto, respiri corti, poi fece un cenno.
“Va meglio.”
Non chiesi altro. Non perché non mi importasse, ma perché avevo finalmente capito la lingua di quell’uomo: se lo trasformavo in una conversazione, lui si sarebbe chiuso; se lo trasformavo in un gesto, lui avrebbe accettato.
Rientrammo solo quando il sole era già basso e la luce diventava blu. La casa ci accolse con il suo freddo secco e papà mise altra legna nella stufa.
Io tirai fuori dal mobile una vecchia coperta e gliela buttai sulle spalle come se fosse la cosa più naturale del mondo.
“Non serve,” disse.
“Serve,” risposi.
Lui sbuffò, ma se la tenne addosso.
Mangiammo qualcosa di semplice: pane, formaggio, una zuppa scaldata come si poteva. Poi, mentre fuori il vento riprendeva a sibilare tra gli spigoli della casa, papà si alzò e aprì un cassetto che io non vedevo aprire da anni.
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