Non era droga quella che avevo trovato nel bagno delle ragazze al secondo piano. Avevo trovato una ragazzina che cercava di lavare via la vergogna dai pantaloni con l’acqua gelida del rubinetto, tremando così forte che il lavandino di ceramica vibrava.
Mi chiamo Elvira. Ho 72 anni. A quest’età dovrei essere in pensione, magari seduta su una panchina ai giardinetti o a preparare le lasagne per i nipoti. Ma con la “minima” che prendo, dopo aver pagato affitto e bollette, non mi resta quasi nulla per fare la spesa. Così continuo a lavorare. Ogni sera, quando gli studenti dell’Istituto Statale escono, io passo lo straccio nei corridoi vuoti.
La gente non guarda la bidella. Sono solo un’ombra con il grembiule blu che spinge un carrello. Ma è questo il punto di essere invisibili: si vede tutto.
Vedo le crepe della nostra società. Vedo i ragazzi con le scarpe firmate da duecento euro e l’ultimo telefono. E vedo gli altri. Quelli che tengono il giubbotto addosso in classe per nascondere il maglione bucato. Quelli che saltano la merenda e dicono “non ho fame”, ma hanno lo stomaco che brontola. Quelli che camminano a testa bassa, terrorizzati che un filmato umiliante finisca in rete o nei gruppi di messaggistica di tutta la scuola.
Era un martedì di novembre, pioveva a dirotto. Sono entrata nel bagno delle ragazze e ho sentito quel pianto. Non erano capricci da adolescenti. Era quel singhiozzo soffocato di chi si sente crollare il mondo addosso.
Ho guardato sotto la porta. Scarpe da ginnastica consumate. E una macchia scura sul pavimento.
Era Viola. Avrà avuto quindici anni. Era rannicchiata sul water. Il distributore della carta igienica era vuoto, e lei stava cercando disperatamente di piegare quegli asciugamani di carta ruvida per tamponare la situazione.
Mi si è stretto il cuore. Conosco quel panico. Oggi un pacco di assorbenti costa quanto un chilo di pane. Per certe famiglie italiane, è una scelta crudele: o la dignità o la cena.
Non ho detto nulla. La vergogna odia il pubblico. Ho fatto rumore con la scopa per farle capire che c’ero, ho messo il cartello giallo “Pavimento bagnato” davanti alla porta per bloccare l’ingresso. Sono andata al mio carrello, ho preso i miei pantaloni di ricambio – una tuta che uso per tornare a casa – e un pacchetto di assorbenti che tengo nella borsa. Li ho fatti scivolare piano sotto la porta.
— Tesoro — ho detto con la voce un po’ roca. — Mettiti questi. Butta il resto nel cestino. Al pavimento ci penso io. Vai a casa tranquilla.
Ho sentito tirare su col naso, poi un sussurro: “Grazie, signora”.
Il giorno dopo non ho visto Viola. Ma non riuscivo a togliermi quell’immagine dalla testa. Quante altre? In un Paese come il nostro, quante ragazze saltano la scuola perché non hanno i soldi per le cose basilari?
In fondo al corridoio delle aule di chimica c’era l’armadietto 104. La serratura era rotta da anni. La segreteria diceva sempre che “non ci sono fondi” per ripararlo. Restava sempre socchiuso.
Quella sera mi sono fermata in un supermercato economico. Ho preso venti euro dal mio budget per la spesa – niente carne questa settimana – e ho comprato assorbenti, un deodorante neutro, salviette umidificate e qualche merendina confezionata.
Ho messo tutto nell’armadietto 104. Ho attaccato un bigliettino scritto a mano: «Prendi ciò che ti serve. Niente domande. Niente telecamere. Non sei solo/a.»
Alla ricreazione delle undici, l’armadietto era vuoto.
L’ho riempito due giorni dopo. Dentifricio. Un paio di calzini caldi. Un pettine. Spariti in un’ora.
Pensavo di dover portare avanti questa cosa da sola, stringendo la cinghia. Ma i ragazzi… i ragazzi sono migliori di come li descrivono in televisione.
Due settimane dopo, sono andata a controllare l’armadietto. Non era vuoto. Qualcuno aveva lasciato uno shampoo di marca, quasi nuovo. C’era un pacchetto di cracker. Dei campioncini di crema. E un foglietto adesivo scritto con un pennarello luccicante: «Chi può metta, chi non può prenda.»
È diventato il cuore pulsante del corridoio. Io guardavo da lontano mentre lavavo i pavimenti. Ho visto il rappresentante d’istituto, uno che di solito fa il duro, guardarsi attorno e infilare veloce un deodorante e un sacchetto di taralli. Ho visto le ragazze “popolari” lasciare trucchi ed elastici per capelli.
Una mattina gelida di gennaio, ci ho trovato dentro un piumino. Usato, ma pulito e lavato. Sulla manica c’era un biglietto: «A me non va più. Tieniti al caldo.» Un’ora dopo, ho visto un ragazzo che aveva passato l’inverno a tremare con una felpa leggera camminare per il corridoio con quel piumino. Camminava a testa alta.
Ovviamente, in Italia, appena fai qualcosa di buono fuori dalle regole, arriva la burocrazia.
Il vicepreside l’ha scoperto. Un uomo rigido, che amava le circolari più degli studenti. È arrivato nel corridoio con l’aria di chi deve fare un’ispezione. Voleva sigillare l’armadietto 104. “Norme di sicurezza!”, diceva. “Non è autorizzato! E se qualcuno è allergico al cibo? È una questione di responsabilità civile dell’Istituto!”
Si è radunato un gruppetto di studenti. Lui ha iniziato la solita predica sulle regole e le normative. Ha preso un lucchetto per chiudere tutto.
— Si fermi.
Non è stato un professore a parlare. È stata Viola. È uscita dal gruppo. Era rossa in viso, tremava. A quell’età esporsi così è un incubo. Ma è rimasta lì, ferma. — Non può chiuderlo — ha detto con la voce che si spezzava. — Quell’armadietto è l’unico motivo per cui oggi ho avuto il coraggio di venire a scuola.
Poi un’altra voce. Un ragazzo dal fondo. — Ho preso da mangiare lì dentro quando papà è andato in cassa integrazione il mese scorso.
E un altro. — Ho preso uno spazzolino. — Ho preso dei guanti.
Decine di ragazzi. Figli di avvocati e figli di operai. Si sono fatti avanti. Non era una protesta violenta, era un muro di solidarietà. Stavano proteggendo l’unico posto della scuola che non li giudicava in base ai voti o al reddito dei genitori.
Il vicepreside ha abbassato il lucchetto. Ha guardato le facce. Ha guardato dentro l’armadietto di metallo arrugginito, ha visto i prodotti economici e le merendine. Ha visto il bisogno che fingeva di non vedere. Si è schiarito la voce, imbarazzato. “Be’, — ha borbottato, sistemandosi gli occhiali — purché resti… in ordine. E che non intralci il passaggio… chiuderò un occhio.”
Si è girato e se n’è andato. L’armadietto è rimasto aperto.
Pulisco ancora i pavimenti della scuola. La schiena mi fa più male e l’umidità si sente di più. Ma ogni sera, quando passo davanti al 104, mi fermo. Adesso è loro.
Ieri ho rivisto Viola. Ormai è all’ultimo anno, si prepara per la maturità. Stava spiegando a una ragazzina di prima, che sembrava spaventata, come funziona il “sistema”. Ho visto Viola farle scivolare una barretta di cioccolato in mano e sussurrarle: “Tranquilla. Qui ci diamo una mano noi.”
Sono andata nel mio sgabuzzino, mi sono seduta su un secchio e ho pianto un po’.
Viviamo in un mondo rumoroso. Accendiamo la televisione e sentiamo solo gente che urla, politici che litigano. Ci sentiamo piccoli. Ci sembra di non contare nulla. Ma ve lo dico io, dai corridoi silenziosi di una scuola a mezzanotte: vi sbagliate.
Non serve un decreto legge per cambiare le cose. Non serve essere ricchi. Basta guardare. Basta vedere l’umano accanto a te. La vicina che non apre le finestre da un po’. L’anziano che conta i centesimi alla cassa del supermercato. Il ragazzino seduto da solo sul muretto.
La vita è già abbastanza dura così. L’armadietto 104 mi ha insegnato che la gentilezza è contagiosa. Si diffonde più veloce di un virus. Basta una scintilla.
Quindi, per favore. Se stai leggendo questo sul tuo telefono: sii tu la scintilla. Lascia l’euro nel carrello. Sorridi agli invisibili che puliscono i tuoi uffici o ti servono il caffè. A te sembra niente. Ma per qualcun altro? Potrebbe essere l’unica cosa che gli dà la forza di andare avanti un altro giorno.
Non aspettare il permesso per essere gentile. Apri solo l’armadietto.
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