L’Armadio 104: La Bidella Invisibile che Accese la Solidarietà a Scuola

Se avete letto la prima parte, sapete che l’armadietto 104 non era nato per “fare beneficenza”, né per diventare una bandiera. Era nato da una macchia scura sul pavimento e da una ragazzina che tremava, chiusa in un bagno, convinta di essere sola al mondo.

Io, invece, pensavo che avrebbe continuato a vivere in silenzio, come un segreto buono tra chi ha bisogno e chi può dare. Mi sbagliavo, perché anche la gentilezza, quando cresce, fa rumore. E il rumore, prima o poi, attira sempre qualcuno che prova a spegnerlo.

Era un lunedì di marzo, uno di quei giorni che sembrano già primavera ma ti tradiscono con un colpo di vento freddo. Stavo passando lo straccio vicino alle aule di chimica quando ho visto l’armadietto 104 socchiuso più del solito, come una bocca rimasta aperta dopo uno schiaffo. Mi sono avvicinata e mi è venuto un peso nello stomaco.

Dentro era tutto sottosopra. Pacchetti strappati, un paio di calzini buttati come se fossero immondizia, salviette aperte e schiacciate. E poi un foglio, infilato nella fessura come una lingua cattiva: «Qui non è un centro assistenza. È una vergogna.»

Mi sono seduta un attimo sul bordo del termosifone e ho sentito il cuore battere in gola, non per me. Per loro. Perché quella frase non insultava un armadietto: insultava la dignità di chi, una volta, aveva trovato il coraggio di prendere qualcosa senza sentirsi un ladro.

Ho raccolto piano le cose, come si raccoglie un piatto rotto senza tagliarsi. Ho buttato via ciò che era inutilizzabile e ho sistemato il resto, cercando di rimettere ordine anche dove l’ordine, da solo, non basta. Poi ho pulito il pavimento, perché questa è la mia lingua: acqua, straccio e silenzio.

Quando la campanella della ricreazione ha iniziato a sputare fuori ragazzi e zaini, li ho sentiti arrivare prima ancora di vederli. Non con le risate, stavolta, ma con quel mormorio basso che fanno le api quando difendono l’alveare. Viola era in mezzo, pallida come se quella scritta fosse stata fatta sulla sua pelle.

— Chi è stato? — ha detto una voce maschile, tesa.

— Lascia stare, — ha risposto un’altra, — non serve un nome. Serve che non succeda più.

Viola si è chinata, ha visto il foglio e l’ha preso tra due dita come se scottasse. Non ha pianto, e per una ragazza è già una forma di coraggio che gli adulti spesso non capiscono. Ha inspirato e poi ha alzato lo sguardo verso di me, come se mi vedesse per la prima volta davvero.

— Signora Elvira, — ha detto, e mi è sembrato strano sentire il mio nome in quel corridoio, — noi non possiamo far finta di niente. Se lo lasciamo così, domani nessuno avrà più il coraggio di aprirlo.

Mi sono asciugata le mani sul grembiule. Avevo voglia di dire “ci penso io”, come sempre, perché è il riflesso di chi ha passato la vita a tappare buchi da solo. Ma ho capito che quel baule di metallo non era più soltanto un mio gesto: era diventato un “noi”. E quando un “noi” viene ferito, non lo rimetti in piedi con un secchio d’acqua.

— E cosa volete fare? — ho chiesto piano, più per paura che per curiosità.

Si sono guardati tra loro, ragazzi di quindici, sedici, diciassette anni, con facce diverse e storie che io non conoscevo, ma che quel corridoio mi aveva insegnato a intuire. Poi uno, quello che avevo visto infilare di nascosto un deodorante e un sacchetto di taralli, ha fatto un passo avanti.

— Parliamo con la preside, — ha detto. — Ma sul serio. Non come quando gli adulti dicono “poi vediamo”. Ci andiamo noi. E ci va anche lei, se se la sente.

La parola “preside” mi ha fatto salire la pressione. Io sono una bidella: nella scala invisibile della scuola sto sotto le sedie e sopra i secchi. Eppure, in quel momento, ho pensato che forse quella scala la stavamo riscrivendo noi, con le mani stanche e i pensieri lucidi.

Siamo andati in segreteria il giorno dopo, prima delle lezioni, quando l’odore del corridoio è ancora quello del detergente e della notte. Io tenevo le mani giunte davanti al grembiule, come una bambina richiamata. Viola invece camminava dritta, con lo zaino sulle spalle come un’armatura leggera.

La dirigente ci ha fatti entrare nel suo ufficio. Non era una donna cattiva, ma era stanca, come sono stanchi tutti quelli che devono tenere in piedi un edificio pieno di crepe con quattro graffette e una preghiera. Ci ha guardati uno a uno e poi ha guardato me, sorpresa.

— Elvira… — ha detto, come se non sapesse se fosse giusto usare il mio nome. — Mi spiegate che succede?

Viola ha raccontato tutto. Ha parlato del bagno di novembre senza entrare nei dettagli che bruciano, ma abbastanza da far capire. Ha parlato dell’armadietto, delle cose che sparivano e ricomparivano, del biglietto “chi può metta, chi non può prenda”. E poi ha appoggiato il foglio cattivo sulla scrivania: in mezzo ai registri e ai timbri, sembrava ancora più fuori posto.

— Qualcuno ci sta provando a chiuderlo con la cattiveria, — ha detto Viola. — Se lo chiudiamo anche noi, allora ha vinto.

La dirigente è rimasta in silenzio. Un silenzio lungo, vero, non quello delle riunioni. Si è tolta gli occhiali, si è massaggiata il ponte del naso e ho visto che stava combattendo una battaglia che conosco bene: quella tra le norme e le persone.

— Io devo pensare alla sicurezza, — ha detto infine. — Ma devo anche pensare ai ragazzi. E oggi voi mi state dicendo che il 104 non è un capriccio: è un bisogno.

Il ragazzo con i taralli ha parlato allora, senza arroganza, solo con la voce di chi non vuole più nascondersi.

— Facciamolo stare in piedi nel modo giusto, — ha detto. — Regole semplici. Niente medicine. Cibo solo confezionato e con etichette chiare. Prodotti chiusi. E qualcuno controlla che resti in ordine.

Io avrei voluto dire: “Ci penso io.” Ma la dirigente mi ha guardato e, per la prima volta da quando lavoravo lì, non mi ha guardato come si guarda una scopa appoggiata al muro.

— E lei, Elvira? — ha chiesto. — È iniziato tutto da lei?

Mi si è seccata la bocca. Dire la verità significava mettermi in mezzo, diventare visibile. E quando sei invisibile da una vita, essere vista fa paura, anche se è per una cosa buona.

— È iniziato da una ragazza, — ho risposto. — Io ho solo… aperto una porta.

La dirigente ha annuito, come se quella frase le avesse sistemato qualcosa dentro. Poi ha preso un foglio bianco e ha iniziato a scrivere non una circolare fredda, ma un accordo umano: “Spazio di solidarietà tra studenti”, lo ha chiamato. Niente nomi, niente foto, niente elenchi di chi prende o chi mette. Solo un punto preciso, con regole chiare e una responsabilità condivisa.

— E una cosa, — ha aggiunto, abbassando la voce. — Niente spettacolo. Questo deve restare un posto dove nessuno si sente in debito.

Quando siamo usciti dall’ufficio, io mi sentivo leggera e spaventata insieme, come quando ti togli un peso e ti accorgi di quanto eri abituata a portarlo. Nel corridoio, la luce del mattino cadeva sulle mattonelle appena lavate, e mi è sembrato che anche la scuola respirasse meglio.

Da quel giorno, l’armadietto 104 è cambiato senza cambiare davvero. È rimasto lo stesso metallo arrugginito, la stessa serratura rotta, lo stesso sportello che cigolava. Ma accanto è comparso un foglio plastificato con poche righe semplici, scritte in grande, come per dire: “Qui si può.”

E soprattutto, non ero più sola.

Ho visto gesti che mi hanno fatto venire i brividi, e non per il freddo. Una ragazza ha lasciato un pacco di assorbenti ancora chiuso, senza guardarsi intorno, come se stesse facendo una cosa normale. Un ragazzo ha portato due panini confezionati e li ha messi dentro con una naturalezza che mi ha spaccato in due: perché significava che aiutare non era più qualcosa da nascondere.

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