L’estraneo nella foto, l’anima gemella sulla poltrona: crescere nell’amore

Se stai leggendo questo, allora hai appena visto l’uomo sulla poltrona aprire gli occhi e sorridermi come se il tempo non avesse mai morso niente.

Io, invece, avevo ancora la fotografia del 1985 in mano e il terrore fresco in gola, come un sorso d’acqua gelata ingoiato troppo in fretta.

Lui allungò davvero la mano verso il telecomando, come avevo previsto, con quel gesto lento e quotidiano che sembra insignificante finché non capisci che ci hai costruito sopra una vita intera.

Poi si grattò la tempia, confuso, e mi fissò per un secondo più lungo del normale, come se stesse cercando una parola dentro un armadio disordinato.

“Che giorno è oggi?” chiese, senza malizia, con la voce ancora impastata.

Una domanda semplice. Una domanda innocente. Eppure mi fece scattare qualcosa sotto le costole, perché non era la prima volta che me la faceva… e non era sempre stata una battuta.

“Oggi è mercoledì,” risposi, più leggera di quanto mi sentissi. “Il tuo giorno preferito per lamentarti del telegiornale.”

Lui sbuffò, e quella piccola autoironia mi diede un sollievo stupido, quasi infantile. Si passò una mano sulla pancia, si sistemò gli occhiali sul naso e guardò la foto nel mio grembo come si guarda una vecchia canzone: con affetto, ma anche con un po’ di pudore.

“Ancora quella?” borbottò. “Vuoi farmi venire la nostalgia o vuoi prendermi in giro?”

“Voglio ricordarmi,” dissi. “E voglio capire.”

Lui arricciò la fronte. “Capire cosa?”

Mi fermai un attimo, perché la verità era scivolosa. Non volevo dirgli: Ho avuto paura di te. Non volevo dirgli: Per un secondo non ti ho riconosciuto. Perché certe frasi, anche se sincere, hanno il potere di rompere qualcosa che poi non si rimette a posto con la colla.

“Capire come siamo arrivati qui,” dissi invece. “Come siamo diventati… questo.”

Lui guardò la poltrona, come se stesse controllando se fosse davvero lì. Poi alzò le spalle. “Con la schiena che scricchiola, vuoi dire?”

Sorrisi, ma mi tremò la bocca.

“Con la casa che è casa,” dissi. “Non un set. Non un sogno. Casa.”

Lui rimase zitto per qualche secondo, e quel silenzio non era vuoto. Era pieno di cose che non abbiamo mai saputo dire bene, perché la nostra generazione è stata educata a fare, non a spiegare.

“Vieni qui,” disse, allungando il braccio verso di me.

Mi sedetti più vicino, e lui mi prese la mano come aveva fatto prima, con quella calma quasi distratta che solo chi ti conosce da quarant’anni può permettersi. Le sue dita erano calde, ma sentii una piccola esitazione, un microsecondo in cui sembrò chiedersi dove appoggiarsi, come se il corpo avesse memoria ma la mente stesse controllando l’indirizzo.

“Ti sei messa a pensare troppo,” disse. “Ti fa male.”

“Mi fa bene,” lo contraddissi. “Mi fa paura, ma mi fa bene.”

Lui mi guardò di lato, sospettoso. “Paura di cosa?”

Eccolo. Il punto esatto in cui avrei potuto mentire, cambiare argomento, alzarmi a mettere su l’acqua per la pasta. Invece rimasi lì, con la foto tra le mani e il cuore che faceva il matto come una lavatrice sbilanciata.

“Paura di perderti,” dissi.

La frase cadde tra noi come una moneta in un pozzo. Non senti il fondo. Senti solo il suono e poi l’attesa.

Lui non rise. Non fece il macho. Non disse “Non dire sciocchezze.” Fece una cosa più difficile: inspirò piano, come se anche lui stesse ammettendo qualcosa a se stesso.

“Mi perderai comunque,” disse, e io sentii la rabbia salirmi in gola. “Non oggi. Non domani. Ma… succede. È così.”

“Non dire così,” sussurrai.

“È la verità,” disse, senza crudeltà. “La verità non è cattiva, Elisa. È solo… la verità.”

Io abbassai lo sguardo sulla sua mano. La pelle sottile, le macchie del tempo, le vene come piccoli fiumi azzurri. Quella mano aveva portato sacchi della spesa, aveva stretto tubi, aveva tenuto la nostra figlia quando era febbricitante, aveva firmato fogli che non capivamo fino in fondo ma che ci decidevano la vita.

“Lo so,” dissi. “Ma non sono pronta.”

Lui fece un verso che poteva essere un sospiro o un sorriso. “Non lo è nessuno.”

La televisione iniziò a parlare di qualcosa in sottofondo, una voce veloce, allarmata, come se il mondo intero fosse sempre sul punto di finire. Lui alzò il volume, poi lo abbassò subito, infastidito.

“Ti dà fastidio?” chiesi.

“Mi stanca,” disse. “Troppe parole. Troppa paura venduta a rate.”

Mi colpì quella frase, perché era la stessa cosa che avevo pensato io per anni senza mai dirla. Forse è questo che succede quando l’amore invecchia bene: inizi a finire le frasi dell’altro senza rubargliele.

Io mi alzai e andai in cucina. Misi su la moka, come aveva fatto lui quella notte in cui gli avevo urlato addosso per mia madre. Il gesto mi sembrò una preghiera ripetuta, una formula che abbiamo imparato per tenerci vivi.

Quando tornai con due tazzine, lo trovai ancora con la foto in mano. La guardava serio, come se stesse finalmente concedendo a quel ragazzo in smoking il diritto di esistere.

“Eravamo proprio due cretini,” disse.

“Eravamo giovani,” lo corressi.

“No,” insistette. “Eravamo cretini e giovani. Che è peggio, perché ti senti immortale.”

Appoggiai la tazza sul tavolino. “E adesso?”

“Adesso siamo cretini con esperienza,” disse, e finalmente sorrise.

Risi, e la risata mi uscì bassa, stanca, ma vera. Poi lo vidi fermarsi, come se un pensiero gli fosse attraversato la testa troppo in fretta per essere afferrato.

“Dimmi una cosa,” disse. “Quella… quella foto l’hai tirata fuori tu oggi?”

“Sì.”

“Perché?”

Per un secondo, la stanza si rimpicciolì. Perché anche lui non ricordava che l’avevo già guardata la settimana prima. Perché anche lui mi aveva già chiesto la stessa cosa, due volte, e io avevo finto che fosse normale. Perché a volte l’amore non è solo scegliere, ma anche proteggere.

“Perché mi andava,” dissi piano. “Ogni tanto mi piace guardare i nostri inizi.”

Lui annuì, soddisfatto, come se quella risposta avesse rimesso tutto al suo posto. E in parte lo fece. L’ordine, però, era fragile come il ghiaccio sottile.

“Lo sai che in soffitta c’è ancora quella scatola?” disse all’improvviso, e io rimasi immobile con la tazza a mezz’aria.

“Quale scatola?”

Quella domanda mi uscì troppo veloce. Troppo vera.

Lui mi indicò il soffitto con un dito. “Quella con le cose vecchie. Le lettere. Le foto. Il… come si chiama… quell’aggeggio per ascoltare le cassette.”

Il mio cuore fece un salto. Non per nostalgia. Perché lui non aveva mai nominato quella scatola. Quella scatola era sempre stata il mio territorio, il mio piccolo museo privato. E adesso era lui a ricordarmela.

“Te la ricordi?” chiesi.

“Certo che me la ricordo,” disse, offeso. “Non sono mica rimbambito.”

Il mio corpo si gelò. Non era più una domanda casuale. Non era più un mercoledì. Era un buco.

“Non ho detto questo,” dissi subito. “Scusa.”

Lui mi fissò un attimo, e poi si addolcì. Mi prese la mano, la strinse appena.

“Non voglio che mi guardi come si guarda un mobile rotto,” disse. “Sono ancora qui.”

E io capii una cosa che mi mancava: non ero l’unica ad avere terrore. Anche lui lo sentiva. Anche lui, qualche notte, doveva averlo assaggiato nel buio.

“Ti guardo come ti guardo da quarant’anni,” dissi. “Con amore. E con una quantità ridicola di ansia, sì.”

Lui ridacchiò, poi fece uno sforzo e si alzò dalla poltrona. Lo vidi appoggiarsi al bracciolo con quella cautela da uomo che conosce le proprie ossa, e mi venne da aiutarlo. Mi trattenni. Non perché fossi orgogliosa, ma perché sapevo che, a volte, offrire troppo presto la mano è come dire: Non ce la fai più.

“Non fare la caposquadra,” mi disse, intuendomi. “Salgo io per primo.”

“Per primo,” ripetei. “Come se fosse una spedizione.”

“Lo è,” disse lui. “In soffitta si muore di caldo d’estate e di freddo d’inverno. È un posto dove vanno le cose a farsi dimenticare.”

Quella frase mi scivolò addosso come una lama sottile. A farsi dimenticare. Era questo che mi terrorizzava davvero.

Salimmo le scale piano. Lui davanti, io dietro. Ogni gradino era un suono di legno e storia. Ogni scricchiolio sembrava un commento del passato: Siete ancora qui, eh?

In soffitta c’era odore di cartone, polvere e vecchi tessuti. La luce entrava da una finestra piccola e sembrava sempre la stessa, come se lì sopra il tempo fosse rimasto in pausa.

La scatola era dove l’avevo lasciata, con la scritta sbiadita fatta con un pennarello: “NOSTRO.” Una parola enorme, presuntuosa, come se potessimo davvero possedere qualcosa.

Lui si chinò con fatica e la tirò fuori.

“Aprila,” disse.

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