L’ex ultras sente un pianto dietro il supermercato a Natale e scopre tre bambini nascosti in un bus

Sara invece si raggomitolò in un angolo. Non voleva farsi toccare. Quando finalmente mostrò le braccia a Paola, smettemmo di contare a sessanta. Sessanta bruciature e più. Alcune vecchie, altre fresche. Alcune sulle gambe, sulla schiena.

«Da quanto va avanti?» chiese Paola a Luca, sottovoce.

«Da quando è nata Marta» rispose lui. «Ha detto che Sara piange troppo.»

Lo guardai. Aveva otto anni e portava addosso un peso che neanche molti adulti sopportano.

«Luca» dissi, «ci devi dire una cosa. Non per riportarvi indietro. Ma per proteggervi. Come si chiama il fidanzato di tua madre? E cosa fa?»

«Si chiama Andrea» rispose piano. «Lavora con la polizia. Fa il turno di notte. Mamma dice che lui sa come funziona il sistema. Che nessuno le toglierà mai le bambine.»

Ci scambiammo uno sguardo. Non era proprio un poliziotto in divisa, scoprimmo più tardi, ma un agente ausiliario, uno che comunque portava la pistola e l’uniforme e conosceva bene uffici e scartoffie.

E sapeva come voltare le cose a suo favore.

Seduta in un angolo, con una tazza di camomilla ormai fredda, c’era anche Elisa, la moglie di Tommy. Avvocata di famiglia. Di solito si occupava di divorzi e cause per l’affidamento dei figli dei nostri. Quella notte il suo sguardo era diverso.

«Luca, avete altri parenti?» chiese. «Nonni? Zii?»

«La nonna. La mamma di mamma.» Esitò. «Ma mamma ha detto che è morta.»

«Quando?»

«Dopo che ha chiamato la polizia per le bruciature. Andrea è tornato a casa il giorno dopo e ha detto che la nonna per noi era morta. Che se la cercavamo ancora ci mandava “via per sempre”.»

Elisa sollevò lo sguardo verso di me. La conoscevo da vent’anni. Quegli occhi dicevano: “La nonna non è morta. Sta combattendo da sola.”

«Ti ricordi come si chiama la nonna? E dove abita?»

«Si chiama Teresa. Teresa Rinaldi. Abita in un paese fuori città, in una casetta gialla con le galline. Diceva che un giorno le avrebbe regalate a noi.»

Erano quasi le tre del mattino e Elisa stava già facendo telefonate. Un collega al tribunale dei minori. Un’amica ai Servizi Sociali. Un conoscente in caserma.

Nel frattempo, Sara finalmente si era lasciata lavare. Ogni volta che l’acqua toccava una cicatrice, stringeva i denti. Ma non piangeva. Aveva finito le lacrime da un pezzo.

Luca non si staccava da me. Il coltello ancora in mano.

«Puoi appoggiarlo, sai?» gli dissi piano. «Qui nessuno ti farà del male.»

«Non sono riuscito a fermarlo» disse all’improvviso. «Ogni volta che cercavo di mettermi davanti a Sara, lui mi buttava a terra e la bruciava lo stesso. Diceva che era colpa mia se lei piangeva. È colpa mia se ha tutte quelle cose sulla pelle.»

Mi si chiuse la gola.

«No» dissi. «Tu li hai portati via. Li hai tenuti vivi per undici giorni in uno scuolabus gelato. A otto anni hai fatto quello che molti adulti non hanno il coraggio di fare. Li hai salvati.»

Fu allora che cominciò a piangere. Davvero. Non quei singhiozzi secchi dei bambini che si vergognano. Pianto pieno, da adulto che finalmente molla la presa.

All’alba, Elisa aveva una risposta. Teresa Rinaldi esisteva. Viveva davvero in una casetta gialla, con le galline, a quaranta chilometri da noi. Aveva denunciato Andrea e la madre dei bambini per sospetto maltrattamento. Le avevano detto che, senza prove «concrete» e senza togliere la patria potestà alla figlia, non potevano farle avere i nipoti.

«Per loro era “solo un conflitto familiare”» disse Elisa, amara. «Teresa ha fatto anche un esposto ai Servizi Sociali. Hanno scritto che “non risultano elementi sufficienti per interventi drastici”.»

«E le bruciature?» ringhiò Nico.

«La madre ha detto che i bambini giocano con l’accendino. Che lo fanno da soli.»

Andrea sapeva esattamente quali parole usare.

«Teresa li sta cercando da due settimane» continuò Elisa. «Ha fatto anche una denuncia di scomparsa. Ma le hanno detto che probabilmente la madre li ha portati fuori città e che non c’è motivo di allarmarsi.»

Teresa, insomma, non era morta. Il sistema, quello sì, era mezzo addormentato.

Teresa arrivò alla nostra sede alle sette del mattino. Una donna di sessantotto anni, sciarpa di lana fatta a mano, mani segnate dal lavoro. Quando vide i bambini, il tempo si fermò.

Sara le corse incontro gridando: «Nonna non è morta! Nonna non è morta!»

Teresa li strinse a sé tutti e tre. Poi vide le bruciature. Le costole in evidenza. Gli occhi scavati.

«Ho provato» ripeteva. «Sono andata ovunque. Mi hanno detto che non avevo diritti. Che “la madre è sempre la madre”.»

«Ora li avrai» disse Elisa. «Ma dobbiamo muoverci subito. Possiamo chiedere l’affidamento urgente per abbandono e maltrattamento. Però serve che tutti sappiano cosa è successo. E serve che nessuno possa più dire “non lo sapevo”.»

Fu lì che nacque il piano.

Quella mattina, quarantasette di noi, con mogli, compagne, figli grandi, ci presentammo davanti al tribunale minorile. Non con urla o bastoni. In fila, in silenzio, giubbotti chiusi, sguardi dritti. Non potevano ignorarci.

Elisa aveva in mano qualcosa di ancora più importante.

La sera stessa quattro dei nostri erano tornati allo scuolabus. Hanno trovato una busta di plastica sotto un sedile posteriore. Dentro: una maglietta di Sara sporca di sangue. Un’accendino. E un piccolo quaderno a righe.

Era di Luca. Otto anni. Ogni pagina un giorno. «Oggi Andrea ha spento la sigaretta sul braccio di Sara.» «Oggi mamma ha detto che se lo dico alla nonna non la vedrò mai più.» Date, orari, piccole frasi dure da leggere persino per noi.

Sul vecchio cellulare della madre, che Luca aveva preso in fretta una notte e poi nascosto nel bus, c’erano anche delle foto. Mosse, di nascosto, ma chiare abbastanza da mostrare una mano adulta con la sigaretta accesa vicino alla pelle di una bambina.

Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬

Scroll to Top