Licenziato per una lampadina da tre euro: il poliziotto e gli ultras che gli hanno cambiato la vita

«Ventitré anni in servizio. Sai quanti della nostra curva hai fatto arrestare?» ha chiesto, con un mezzo sorriso.

«Boh… una ventina?»

«Quarantadue. E tutti, uno per uno, dicono la stessa cosa: ci hai sempre trattati in modo giusto. Niente prove inventate, niente manganellate gratuite, niente accuse fantasiose. Ci hai portati dentro quando sbagliavamo e ci hai lasciati andare quando non c’era motivo.»

Ha aperto la prima cartellina. «Ti ricordi di Stefano, quello che chiamavano “Nano”? Arrestato nel 2010 per aggressione.»

Ricordavo. Sua moglie era morta l’anno prima, e il figlio di otto anni non aveva nessuno che lo portasse a scuola.

«Hai firmato tu la richiesta per il servizio sociale del Comune» ha continuato Luca. «E per tre mesi, finché Stefano era dentro, sei passato ogni lunedì a controllare se il bambino andava a scuola. A volte l’hai accompagnato tu.»

«E quindi?» ho chiesto, con poca voce.

«Quindi tu sei stato l’unico poliziotto che in questi anni non ci ha trattati come bestie. E noi abbiamo delle cose che il Comune e la Procura dovrebbero vedere.»

Un’altra cartellina si è aperta. Foto stampate, scattate di notte, in un capannone alla periferia industriale. Il comandante Serra che stringeva la mano a uomini in giacca e cravatta, volti che non conoscevo ma che non avevano certo l’aria di benefattori.

«Questi sono emissari di una certa organizzazione che si occupa di smaltimento rifiuti in modo… creativo» ha spiegato Luca. «Da anni pagano Serra per far chiudere un occhio su quello che succede nelle nostre campagne. Così è più facile per lui fare il duro con noi della curva: siamo rumorosi, visibili, un bersaglio comodo. Mentre loro scaricano fanghi tossici nei fossi.»

«Perché non avete portato queste foto alla Procura?» ho chiesto.

Luca ha riso, ma senza allegria. «Ultras che accusano il comandante della polizia di corruzione? Ma ti rendi conto? Chi ci avrebbe creduto?»

«E adesso cosa cambia?» ho insistito.

«Adesso tu non sei più un poliziotto. Sei un cittadino fregato dal sistema. E i cittadini, a volte, vengono ascoltati. Soprattutto se dietro si presentano con un po’ di gente pronta a testimoniare.»


La seduta del consiglio comunale era fissata per il 1° febbraio. Avevo presentato un ricorso per licenziamento illegittimo, convinto che si sarebbero presentati il mio avvocato e forse due colleghi ancora capaci di guardarmi negli occhi.

Invece, quando sono entrato nella sala, ho trovato la curva nord.

Non con tamburi e fumogeni, ma vestiti “da domenica”. Quarantadue tifosi, più mogli, figli, persino qualche nonno. Tutti in ordine, seduti composti sulle sedie di plastica, in silenzio. Là per parlare non del “loro” comandante, ma dell’ispettore che, in passato, li aveva spesso portati in caserma.

Il comandante Serra è diventato bianco quando li ha visti.

«Questo è un atto intimidatorio!» ha sibilato rivolto al sindaco.

«Questa è partecipazione dei cittadini» ha risposto con calma la moglie di uno dei tifosi, insegnante di scuola primaria. «Siamo qui per parlare della persona che avete licenziato.»

Uno per uno, hanno preso il microfono. Non solo loro: persone che non vedevo da anni. La ragazza che avevo fermato sul ponte quando voleva buttarsi giù. La donna che avevo convinto a denunciare il marito violento. Un senzatetto che avevo fatto dormire in sala d’attesa d’inverno invece di sbatterlo fuori nel gelo.

Poi si è alzato Luca.

«Ho qualcosa che il consiglio dovrebbe vedere» ha detto.

Ha consegnato una chiavetta USB al segretario. Sullo schermo è partita una registrazione di dieci anni prima. Si vedeva un vicolo dietro lo stadio. Serra, allora ancora vicecomandante, che spingeva contro il muro un ragazzo ammanettato. Il ragazzo cadeva. Serra lo colpiva ancora, anche quando era a terra, finché due agenti non lo trascinavano via, fuori dall’inquadratura.

Il volto del ragazzo era giovane, spaventato. Riconoscibile. Era il fratello minore di Luca, morto due giorni dopo per un’emorragia cerebrale. Il referto ufficiale aveva parlato di “caduta durante la fuga”.

In sala è esploso il caos. Il sindaco ha battuto il martelletto chiedendo silenzio. Serra ha provato ad alzarsi e ad andarsene, ma si è trovato davanti un muro di persone – non tifosi minacciosi, ma padri di famiglia, ex colleghi miei, cittadini.

Si è fermato. Forse per la prima volta in vita sua ha capito che non comandava più lui.


L’indagine che ne è seguita è stata veloce e spietata. La Procura, stavolta, non ha potuto far finta di niente. Serra è stato sospeso, poi arrestato. A catena sono caduti altri dirigenti, impiegati, piccoli pezzi di un sistema che per anni aveva chiuso gli occhi sugli affari sporchi in cambio di carriera e silenzio.

Io sono stato reintegrato con tutti gli arretrati. Il sindaco, davanti alle telecamere, ha fatto una dichiarazione pubblica in cui ha ammesso che il Comune aveva sbagliato. Mi hanno promosso commissario e affidato la responsabilità di un nuovo nucleo “prossimità e quartieri”, con il compito di ricostruire fiducia.

Con quei soldi arretrati abbiamo finalmente finito di pagare il mutuo di casa. Mia moglie, che quella sera al bar temevo di deludere, mi ha abbracciato in cucina e ha pianto più di me.


Il primo giorno in cui sono tornato in servizio, mi hanno assegnato un intervento proprio al “Tre Scalini”. Una rissa tra tifosi e alcuni ragazzi ubriachi che stavano spaccando gli specchietti delle auto parcheggiate.

Sono entrato da solo, in anticipo sulla pattuglia di supporto. Dentro, i tifosi erano schierati tra i ragazzi e le auto, come un muro.

«Buonasera, Commissario» ha detto Luca, girandosi verso di me con un mezzo sorriso. «Questi ragazzi ci stavano decorando le macchine a calci. Direi che adesso hanno finito.»

Uno dei giovani, con la giacca di marca e l’aria da “so tutto io”, ha sbuffato: «Eccolo, il poliziotto amico degli ultras. Ma guarda che accoppiata…»

Un altro ha lanciato una bottiglia verso la porta. È passata a pochi centimetri dalla mia testa e si è infranta contro il muro.

In quel momento ho capito davvero cosa intendesse Luca quando parlava della “fratellanza della curva”. Perché improvvisamente non ero più solo. Quegli uomini, tanto odiati sui giornali, si sono messi tra me e i ragazzi ubriachi. Non hanno alzato le mani. Sono solo rimasti fermi, un cordone umano.

«Ragazzi» ho detto, con calma. «Potete venire tranquillamente in ufficio a fare due chiacchiere, oppure potete spiegare al giudice perché avete lanciato una bottiglia contro un pubblico ufficiale e danneggiato le auto di gente che lavora. Voi scegliete.»

Hanno scelto la prima opzione.

Più tardi, mentre compilavamo i verbali, Luca si è avvicinato.

«Quella lampadina non mi ha salvato solo il Natale» ha detto piano. «Quella notte stavo correndo a casa perché mi avevano chiamato dall’ospedale. Mia figlia era ricoverata da settimane. Leucemia. Il medico aveva detto a mia moglie che forse non sarebbe arrivata al mattino.»

Mi si è gelato il sangue. «E adesso…?»

Luca ha fatto un mezzo sorriso che gli ha fatto brillare gli occhi. «Adesso è in remissione da quattro anni. Va alle medie. E sai cosa vuole fare da grande?»

«No» ho sussurrato.

«Dice che vuole entrare in polizia» ha risposto. «Dice che vuole essere come “quel poliziotto che non ha rovinato il Natale a papà”.»

Mi sono girato verso la finestra, fingendo di dover guardare qualcosa nel cortile, solo per avere il tempo di ricompormi.

«Ascolta, Rinaldi» ha continuato. «Noi non ti risparmiamo quando sbagli. Ci hai arrestati tante volte e lo farai ancora, se serve. Ma tu sei uno dei pochi che ci vede come persone, non solo come “problema”. E questo, da queste parti, vale più di mille promesse.»


Sono passati cinque anni da quella notte di Natale. Adesso sono dirigente, ho un piccolo ufficio con una finestra che dà sui tetti della città. Il reparto è cambiato. Non siamo diventati santi, arrestiamo ancora gente, compresi quelli della curva quando oltrepassano il limite.

L’ultima volta è stata la settimana scorsa, per una partita clandestina di carte e soldi. Siamo entrati, abbiamo sequestrato, verbalizzato. Hanno brontolato, certo. Ma alla fine hanno firmato il verbale e stretto la mano agli agenti.

Però qualcosa è cambiato.

Quando il figlio di un mio agente è morto investito da un guidatore ubriaco, gli stessi tifosi che negli anni avevamo accompagnato in questura hanno fatto da picchetto d’onore al funerale. Sciarpe abbassate, teste chine, nessun coro, solo silenzio e rispetto.

Quando organizziamo la raccolta di giocattoli per i bambini in ospedale a Natale, loro riempiono furgoni interi. Alcuni di quei giochi li porta proprio la figlia di Luca, quella che voleva morire e che ora sogna di mettere una divisa.

E quando dobbiamo fare lezioni di educazione stradale nelle scuole, sull’uso del casco e sui pericoli della guida dopo aver bevuto, indovina chi viene a parlare ai ragazzi? Gente che ci è passata davvero, che sa cosa vuol dire piangere un amico morto in un incidente.


La lampadina da tre euro che ha quasi distrutto la mia carriera adesso è incorniciata nel mio ufficio.

Accanto c’è una foto scattata l’ultimo Natale: io, in uniforme, insieme a una trentina di tifosi, davanti all’ingresso del reparto pediatrico con i sacchetti di regali in mano. In mezzo a noi, una ragazzina magra con i capelli ricresciuti male, che sorride più grande della sua faccia.

Il comandante Serra sta scontando una lunga pena in carcere per corruzione e abuso di potere. Le persone che versavano rifiuti nei campi sono finite sotto processo. Il sistema non è diventato perfetto, ma non è più quello di prima.

E i tifosi della curva? Sono ancora rumorosi, ancora testardi, ancora capaci di farmi venire il mal di testa quando decidono di fare festa fino alle tre di notte.

Ma ogni volta che sento l’odore di birra e fumo di sigaretta alle mie spalle, in certe notti di servizio, so che non sono solo.

Perché so che, se succede qualcosa di brutto in un vicolo o in una piazza, qualcuno di loro si metterà tra me e il pericolo, come noi ci mettiamo tra loro e l’ingiustizia quando possiamo.

Ho imparato quella vigilia di Natale che la famosa “linea sottile” che dovrebbe separare ordine e caos non è fatta solo di uniformi. A volte è fatta di padri che corrono a casa dai figli, di uomini con le mani sporche di lavoro e il cuore pieno di ricordi. Di persone a cui hai dato una mano e che non se lo sono dimenticato.

Il distintivo e la curva. Nemici naturali, direbbero tutti. Eppure, a San Corrado, sono diventati alleati improbabili.

Tutto perché una volta, in una notte fredda di dicembre, ho deciso di essere prima di tutto umano, e solo dopo poliziotto.

I tre euro meglio spesi del Comune. E, forse, della mia vita.

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