La settimana in cui Benno è morto, l’ho allontanato tre volte dicendogli che ero “occupato” – e ogni volta lui mi guardava come se volesse salutarmi.
Adesso, nel mio piccolo appartamento a Torino, la sua ciotola vuota sul pavimento e la sua pettorina appesa al gancio sembrano gridare più di qualunque rumore. Il silenzio, all’improvviso, pesa.
Benno aveva quattordici anni.
La veterinaria parlava dell’età, del cuore, delle articolazioni. Io prendevo nota, sistemavo le pastiglie in una scatolina e continuavo con il mio lavoro in smart-working, tra videochiamate, scadenze e notifiche. Non volevo vedere che quella sarebbe stata la sua ultima settimana.
Lunedì
Ero in riunione davanti allo schermo, otto volti che parlavano uno sopra l’altro. Benno venne piano accanto a me e posò la testa sulle mie ginocchia. Pesava, come se ogni movimento gli costasse.
Spensi il microfono.
«Non ora, Benno…» sussurrai.
E lo allontanai.
Lui si sedette davanti a me e mi fissò. Lungo. Con quegli occhi stanchi ma straordinariamente lucidi. Io distolsi lo sguardo, tornando alle slide come se fossero davvero più importanti di quel momento.
Martedì
Benno tirò il guinzaglio come non faceva da anni.
Non voleva la solita passeggiata di dieci minuti. No. Voleva andare verso la piazzetta dietro la Chiesa di San Massimo, dove anni prima passavamo le serate d’estate insieme al mio ex e al giovane Benno.
Arrivato lì, si fermò nel punto preciso dove c’era una vecchia panchina.
Si sedette e guardò davanti a sé. Immobile. Io risposi a un messaggio sul telefono, con quella distrazione tipica degli adulti convinti di avere tempo infinito.
Forse lui stava salutando un ricordo.
Io non lo capii.
Mercoledì
Nel vano scala incontrammo Matteo, il ragazzo del terzo piano.
Sedici anni, cuffie grandi come la sua timidezza. Di solito ci scambiavamo appena un cenno.
Questa volta Benno gli si avvicinò con energia improvvisa, gli spinse la testa sulla mano e scodinzolò piano.
Matteo tolse un auricolare.
«Ciao, vecchio Benno…»
«Sta invecchiando», dissi.
Matteo annuì. «A volte si siede davanti alla vostra porta. Come se controllasse che stiate bene.»
Non seppi cosa rispondere.
Sorrisi per nascondere la stretta allo stomaco.
Giovedì
Benno trascinò fuori da sotto il letto una scatola di cartone.
Ne uscirono vecchie foto: io più giovane, il mio ex con un sorriso che non ricordavo più, e Benno cucciolo.
Lui prese tra i denti il suo pupazzetto preferito – un coniglietto spelacchiato – e lo posò sul mio cuscino. Poi si mise seduto e mi guardò, come volesse lasciarmi un’eredità.
Feci una foto.
La mandai a un’amica:
«Guarda questo nostalgico 😂»
Rispose con una fila di emoticon.
Io gli accarezzai la testa senza pensarci troppo.
Venerdì
Respirava più pesantemente.
Si muoveva a piccoli passi, come se ogni tratto del corridoio fosse una piccola salita.
Chiamai la veterinaria: appuntamento lunedì.
«Va tutto bene», mi ripetei.
La sera restò a lungo davanti alla portafinestra che dava sul cortile interno.
Il cielo era limpido e freddo. Benno guardava fuori, immobile, come se ascoltasse qualcosa che io non potevo sentire.
Poi tornò da me e strofinò il fianco contro la mia gamba con un gesto così consapevole da sembrarmi una frase intera.
Sabato
Decisi di lasciar perdere il lavoro.
Presi Benno e lo portai al Parco del Valentino.
Camminava piano, ma con determinazione. Si fermò davanti agli alberi, ai bambini che correvano, a un anziano che dava da mangiare ai piccioni. Sembrava assorbire tutto: luci, odori, voci.
Ci sedemmo vicino al fiume.
Benno si appoggiò pesantemente alla mia gamba.
Il suo fiato corto, il corpo stanco, gli occhi umidi.
Per una volta, lasciai il cellulare in tasca.
Restammo così a lungo.
La Notte
Di solito dormiva nel suo cuscino vicino all’ingresso.
Ma quella notte venne in camera mia e si fermò accanto al letto finché non aprii gli occhi.
«Vieni, Benno…»
Lui si sdraiò così vicino che la mia mano gli toccava il pelo.
Si calmò lentamente.
Io pure.
Domenica – Prima dell’Alba
Un rumore lieve mi svegliò.
Benno era davanti alla portafinestra. Tremava leggermente.
Aprii. L’aria fredda entrò silenziosa.
Lui non uscì. Guardò il cortile, poi guardò me.
Non c’era paura nei suoi occhi.
Solo una stanchezza profonda.
Mi inginocchiai accanto a lui.
«Ci sono, Benno. Sono qui.»
Sentii il suo cuore battere veloce. Poi più piano.
Poi posò la testa nella mia mano, appena un attimo.
Sentii il suo cuore battere veloce. Poi più piano.
Poi posò la testa nella mia mano, appena un attimo.
E si fermò.
Più tardi, la veterinaria mi disse che molti animali aspettano proprio quel momento: il tocco del loro umano.
Una parte di me ne fu consolata.
L’altra pensava ai segnali che avevo ignorato.
Il pomeriggio
Qualcuno bussò piano.
Era Matteo, senza cuffie, con un foglio in mano.
«L’ho disegnato…» disse.
Un Benno un po’ storto, ma vivo, nel corridoio del palazzo con una zampa sollevata, come in un saluto.
«Mi aspettava quando tornavo da scuola», mormorò. «Mi mancherà.»
Lo invitai a entrare per una tazza di tè.
Era da tanto che non avevo compagnia a casa.
Parlammo di scuola, di vita, di quanto ci si possa sentire soli anche vivendo muro contro muro.
Quando Matteo se ne andò, la stanza sembrò un po’ meno vuota.
Presi il collare di Benno e lo girai tra le dita.
Guardai l’angolo dove dormiva sempre.
In un mondo dove ognuno vive dietro uno schermo o una porta chiusa, un vecchio cane mi ha insegnato a guardare le cose che contano davvero: gli altri, i dettagli, gli addii silenziosi.
Non ho saputo vivere la sua ultima settimana.
Ma grazie a Benno, vivrò meglio le prossime.






