Madre single ospita 25 motociclisti infreddoliti. Tre giorni dopo 1.500 moto si fermano davanti a casa sua…

La signora Conti strinse le labbra, bianca come la neve intorno.

In mezzo al gruppo, Keisha scorse un volto familiare: Marta.
Era venuta anche lei, senza che Keisha se ne accorgesse. Stava un po’ indietro, ma il suo sguardo era pieno di orgoglio.

— E tu che dici, tesoro? — chiese l’anziana donna, facendo un passo avanti. — Hai il coraggio di farti aiutare, adesso?

Keisha sentì gli occhi bruciare.

Guardò Marco, che agitava le braccia verso le moto, sorridendo.

Guardò i Fratelli della Strada.
Guardò Marta.
Guardò la sua casa, piccola, fredda, ma piena di ricordi.

Poi annuì.

— Sì. D’accordo. Facciamolo.


Da quel momento, la via dei Tigli cambiò faccia.

In meno di un’ora, i Fratelli della Strada si organizzarono come una squadra di lavoro professionale.
Chi sapeva di edilizia, tirò fuori metri, matite e livelli.
Chi se la cavava in cucina, prese nota di cosa serviva.
Chi aveva dimestichezza con documenti, iniziò a parlare di permessi, norme igieniche, pratiche.

Le moto parcheggiate ai lati della strada sembravano una specie di guardia d’onore.

I giornalisti arrivarono presto, richiamati da quel mare di giacche di pelle e dal brusio del quartiere. Una piccola troupe montò una telecamera, un cronista iniziò a fare domande.

— È vero che lei ha ospitato venticinque motociclisti durante la bufera?
— È vero che questo gruppo è tornato per ripagarla?
— Cos’è esattamente “Cucina di Mamma Keisha”?

Lei rispondeva con semplicità, imbarazzata, tenendo sempre una mano sulla spalla di Marco.

Nel frattempo, Marta si era avvicinata a Daniele, che aiutava a scaricare alcuni scatoloni da un furgoncino.
Camminava ancora un po’ zoppicando, ma stava chiaramente meglio.

Marta lo guardò per un attimo, come se avesse visto un fantasma.

Il suo sguardo scese sul ciondolo d’argento che Daniele portava al collo.
Un piccolo ovale con incisioni sottili.

Lei portò d’istinto la mano alla propria collana, nascosta sotto il golfino.
Tirò fuori un ciondolo identico.

Le mani iniziarono a tremarle.

— Ragazzo… — disse, con la voce improvvisamente roca. — Scusa… quel ciondolo… dove l’hai preso?

Daniele si voltò, un po’ sorpreso.
Era abituato agli sguardi curiosi, meno a quelli che gli andavano dritti all’anima.

— Questo? — toccò il ciondolo. — Era di mia madre. L’unica cosa che ho tenuto di lei. L’ho perso, anni fa… e poi ritrovato per caso. Almeno così mi hanno detto.

Marta fece un passo avanti.
Aveva gli occhi lucidi.

— Tua madre… come si chiamava?

— Non lo so — rispose lui, abbassando un attimo lo sguardo. — O meglio… lo sapevo, ma ero piccolo. So solo che c’è stato un incendio, in un palazzo vicino al fiume. Mi hanno detto che lei… non è riuscita a uscire.

Il brusio della via sembrò allontanarsi.

Marta si portò una mano alla bocca.

— Quanti anni avevi?
— Sette.
— Vivevi alle case popolari del Borgo Dora, blocco C?

Daniele spalancò gli occhi.

— Sì. Ma… come fa a saperlo?

Marta fece un passo ancora, ora vicinissima a lui.
Lo guardò come se stesse cercando in quel viso adulto i tratti di un bambino.

Poi, con una voce che le tremava, disse:

— Avevi una piccola voglia, a forma di luna, dietro l’orecchio sinistro.

Lui portò istintivamente la mano dietro l’orecchio.
Toccò quella piccola macchiolina che aveva sempre avuto.

— Sì… ce l’ho ancora. Ma…
— Daniele… — sussurrò Marta, e le ginocchia le cedettero quasi. — Io sono tua madre.

Il tempo si fermò.

Per un attimo, nessuno capì davvero cosa stesse succedendo.
Poi la voce di lei, rotta dal pianto, ruppe il silenzio:

— Ti ho perso in quell’incendio. Mi dissero che non ti avevo portato fuori, che ti avevo lasciato dentro. Che il tuo corpo non si trovava. Ho vissuto trent’anni con questo peso sul cuore. Ho cercato ovunque. Nessuno sapeva dirmi più niente.

Le lacrime le scendevano senza freni.

— E ora… sei qui. Con il ciondolo di mia nonna al collo. Davanti a casa della donna che ho aiutato pochi giorni fa. Non può essere un caso.

Daniele la guardava, pallido.

— Mia madre… — mormorò. — Mia madre cantava sempre una canzone stupida per farmi dormire. Diceva “Amore mio, la luna ti guarda anche quando io non ci sono”.

Marta cominciò a canticchiare.
La stessa melodia. Le stesse parole. Fatte di note spezzate dall’emozione.

La voce di Daniele si incrinò.

— Mamma…

Lasciò cadere la scatola che aveva in mano e le andò incontro.
L’abbraccio fu forte, disperato, lungo.

Le lacrime di tutti intorno arrivarono quasi in contemporanea.
I motociclisti, abituati a chilometri di asfalto e difficoltà, si asciugavano gli occhi di nascosto.
I vicini, che fino a qualche giorno prima neppure si salutavano, si ritrovarono con il groppo in gola.

Mike si passò la mano sul viso.

— Non ci credo — borbottò, ma sorrideva. — Una bufera, una casa fredda, un piatto di pollo fritto… e alla fine un figlio che ritrova sua madre dopo trent’anni.

Keisha era immobile, con Marco per mano.

Marta si staccò un attimo da Daniele e guardò verso di lei.

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