Pensavo che quella storia della stufa a pellet finisse lì. Un sabato, un sacco da quindici chili, una pacca sulla spalla e un barattolo di ragù come sigillo di pace tra due uomini che non sanno dire “ti voglio bene” senza travestirlo da faccenda pratica.
Mi sbagliavo. Perché quando un padre infrange una regola sacra, non lo fa per caso. Lo fa perché dentro di lui qualcosa ha già ceduto, e sta cercando un modo per non farlo vedere.
Il lunedì dopo, in cantiere, continuavo a sentire quel “Mi scivola” come un chiodo rimasto mezzo fuori. Lo ripensi e ti dici che non è niente, ma poi la sera ti graffia di nuovo, quando tutto è silenzioso.
Così ho fatto una cosa che non facevo da anni: l’ho chiamato io, senza un motivo preciso. Non per chiedere, non per risolvere, solo per esserci.
“Papà, tutto a posto?” ho detto, cercando di farla semplice.
“Eh… sì,” ha risposto lui, con quella pausa che in Ennio significa “no, ma non te lo dico”. “La stufa va. Non sto al freddo. Vai tranquillo.”
E poi, come se gli fosse scappato, ha aggiunto: “È che… mi è rimasta in testa quella cosa della squadra.”
Sono rimasto in silenzio un secondo, con un sorriso che mi è venuto fuori da solo. “Allora facciamo squadra più spesso,” ho detto. “Sabato passo, ma non per la stufa. Per un caffè. E magari mi fai vedere l’orto, anche se dorme.”
“L’orto non dorme,” ha brontolato lui. “Riposa. È diverso.” E in quella risposta c’era già la sua dignità che cercava di rimettersi in piedi.
Sabato successivo sono salito di nuovo su per i tornanti. La nebbia era la stessa, quel grigio che si appiccica ai vetri e ti fa sembrare tutto più lontano di quanto sia.
Quando sono arrivato, ho trovato le persiane aperte un po’ di più. Non tutte, ma abbastanza da far entrare un taglio di luce sul pavimento del corridoio. Come se la casa si fosse ricordata di respirare.
Papà era in cucina, davanti alla moka, con il cardigan verde e la schiena leggermente curva. Si è voltato quando mi ha sentito entrare, e ho visto che aveva già apparecchiato per due.
“Guarda che non era necessario,” ho detto, indicando le tazzine pronte.
“Non mi rompere,” ha risposto lui. “Se vieni, bevi.”
Mi sono seduto, e per qualche minuto abbiamo fatto quello che sappiamo fare meglio: parlare di cose che non fanno paura. Il Bologna, il freddo che arriva nelle ossa, la strada che secondo lui “l’hanno rifatta male”.
Poi, mentre versava il caffè, ha preso la tazzina con due dita, e gli è tremata appena. Un tremito piccolo, ma vero.
Lui se n’è accorto che me ne ero accorto. È stato lì che ha cambiato faccia, per un attimo. Come quando un uomo capisce che non può più fingere con chi lo conosce da sempre.
“Dario,” ha detto piano, guardando la moka invece di me. “Non è solo il sacco.”
Non ho risposto subito. Ho lasciato che avesse spazio. Perché ho capito che quella era la vera chiamata, quella che aveva provato a fare due settimane prima senza riuscirci.
“Mi scappa qualcosa,” ha detto. “Non le cose grosse, eh. Le cose piccole. Le mani. Le chiavi. La memoria a volte fa la furba.”
Ha sorriso, ma era un sorriso tirato. “L’altro giorno ho messo il sale nel caffè. Poi ho riso da solo come un cretino. Ma dopo… non ridevo più.”
Mi si è stretto lo stomaco, ma ho tenuto la voce ferma. “Succede, papà. A tutti.”
“No,” ha tagliato corto lui, e lì era tornato muratore, muro dritto. “A me non succedeva. Io ero uno che non sbagliava i conti. Che trovava il livello a occhio. Che sapeva dov’era ogni attrezzo anche al buio.”
Ha appoggiato la tazzina, e la mano gli è rimasta un secondo sul tavolo, come se cercasse appoggio. “E adesso mi fa paura la notte. Non il buio. Il pensiero di svegliarmi e non ricordarmi perché mi sono alzato.”
Io ho respirato piano, e ho capito che se in quel momento gli dicevo “Ti porto dal medico”, “Facciamo visite”, “Vediamo”, avrei trasformato la sua confessione in una pratica, in un fascicolo. E lui avrebbe chiuso.
Allora ho fatto l’unica cosa possibile: l’ho riportato alla sua lingua. La lingua delle cose concrete e della dignità.
“Papà,” ho detto. “Tu mi hai insegnato che quando una trave cede, non la insulti. La sostieni. Metti un puntello. E poi ci lavori con calma.”
Lui mi ha guardato finalmente, con gli occhi lucidi ma duri. “E quale sarebbe il puntello, adesso?”
“Una squadra,” ho risposto. “La stessa di due sabati fa. Solo che stavolta non è un sacco di pellet. È la vita.”
È rimasto zitto. Il silenzio non era rifiuto, era fatica. Come quando devi sollevare qualcosa e aspetti il momento giusto.
“E in pratica?” ha chiesto, con quella diffidenza che ha sempre avuto verso le parole grandi.
“In pratica,” ho detto, “iniziamo da piccole cose. Io passo più spesso. Non per controllarti. Per esserci. Facciamo un giro insieme. Mettiamo un calendario sul frigo, con i giorni segnati. Ti prendi un quaderno, e ci scrivi due righe al giorno. Non perché sei vecchio. Perché sei uno che ha sempre lavorato con le mani e con la testa. E questa è manutenzione.”
“Manutenzione,” ha ripetuto lui, assaggiando la parola come se fosse un chiodo nuovo. “Questa mi piace.”
Ho tirato fuori dalla tasca una cosa che avevo comprato senza dirglielo. Un blocco di fogli grandi, quelli da cantiere, e una matita da carpentiere.
“Questo è il tuo,” ho detto. “Ci scrivi quello che vuoi. Anche solo la lista della spesa. Anche solo ‘oggi ho messo il sale nel caffè’. Così domani ti fai una risata due volte.”
Ha preso la matita, l’ha girata tra le dita. Per un secondo ho visto la sua mano ritrovare un gesto antico, familiare. E quel piccolo gesto valeva più di cento discorsi.
Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬






