Il corridoio mi parve improvvisamente lungo come un funerale. Passammo davanti al mio studio, dove il contratto farmaceutico giaceva ancora sul pavimento. Passammo davanti alla stanza che avevo trasformato in biblioteca, piena di edizioni rare. Passammo davanti al bagno con la vasca giapponese che mi ero regalata dopo un anno particolarmente duro.
«Eccoci» annunciò Gabriella, spalancando la porta del vecchio ripostiglio. La stanza sarà stata tre metri per tre, dominata da un letto a ribalta che non aprivamo da anni. Una sola finestrella dava su un cortile tecnico con tubi e macchinari.
La moquette — Dio, avevo perfino dimenticato di averla — era di un beige stanco, forse degli anni Ottanta. L’odore mi colpì subito: polvere, vernice vecchia e qualcos’altro, qualcosa di simile alla sconfitta.
«È perfetta per le tue esigenze» disse Gabriella, e avrei voluto chiederle cosa ne sapesse lei delle mie esigenze. «Pochissime distrazioni, ideale per tutto quel lavoro che fai.»
Lorenzo mise la testa dentro, guardò, e annuì soddisfatto. «Molto zen. Potresti iniziare una pratica di meditazione qui.»
Una pratica di meditazione in una stanza che sembrava la cella di una prigione.
«Il bagno è in fondo al corridoio» aggiunse Giulio, con voce neutra. «Lo condividerai con gli ospiti, quando ne avremo.»
Quando ne avremo.
Stava già parlando come se io non fossi più la padrona di casa, solo un’ospite di passaggio.
«E i miei vestiti?» chiesi, notando l’assenza totale di armadi.
«C’è un vecchio armadio in cantina» propose Gabriella allegramente. «Lo facciamo portare su. Molto vintage, molto autentico.»
Rimasi ferma sulla soglia di quella stanza miserabile, bloccando loro l’uscita, e sentii dentro di me qualcosa spezzarsi. Non rompersi per debolezza, no. Era come un nodo che si recide con un colpo netto. La parte di me che cercava sempre di accontentare, di mediare, di capire “le ragioni degli altri” smise semplicemente di esistere.
«Devo fare qualche telefonata» dissi, spostandomi per farli passare.
«Certo» trillò Gabriella, già dirigendosi verso la mia camera matrimoniale. «Prenditi tutto il tempo che ti serve. Entro certi limiti, ovviamente. I traslocatori dovranno entrare dappertutto.»
Giulio esitò un attimo, forse percependo il cambiamento. La moglie che avrebbe pianto, discusso, supplicato, non c’era più. Quando incrociò il mio sguardo, distolse subito gli occhi, seguendo la sorella.
Rimasi sola in quel buco, ascoltando le loro voci dal fondo dell’attico. Gabriella descriveva dove mettere la culla, come avrebbero “messo in sicurezza” le finestre, come la cabina armadio sarebbe stata perfetta per le cose del bambino.
La mia cabina armadio. I miei vestiti. Le mie scarpe.
Il telefono vibrò: una mail del mio assistente sulla presentazione del pomeriggio. Un’altra dalla grande banca d’investimento che confermava l’incontro. Un messaggio di mia madre: «Come sta andando la mattinata, tesoro?»
Il mondo fuori continuava a girare, mentre il mio si era fermato, capovolto, e ora riprendeva a girare nella direzione opposta.
Mi avvicinai alla finestrella che dava sui tubi dell’impianto, respirai l’odore di polvere e disinfettante vecchio e presi una decisione. Non quella impulsiva e disperata che si aspettavano loro. Non l’accettazione rassegnata che avevano programmato.
Un’altra.
Se volevano giocare con la mia vita, dovevo capire le regole del loro gioco.
Alle sei del mattino l’attico era silenzioso. Gabriella e Lorenzo non si alzavano mai prima delle dieci; chi non ha un lavoro vero, in genere, non conosce le sveglie. Giulio era uscito da un’ora per andare in studio, dopo avermi sfiorato la guancia con un bacio automatico.
Camminai scalza fino al mio studio, dove il computer di casa era ancora acceso.
Giulio non era mai stato un genio con la tecnologia. Le sue password erano sempre variazioni della sua data di nascita e della nostra ricorrenza di matrimonio, date che, a quanto pare, per lui contavano così poco da usarle per tutto.
Aprii la sua mail. Le dita mi rimasero stranamente ferme mentre facevo qualcosa che, fino al giorno prima, avrei considerato un tradimento. Ora mi sembrava solo sopravvivenza.
La casella si caricò, e lo vidi subito: una cartella chiamata “Piano Famiglia”.
Lo stomaco mi si strinse. Il primo messaggio, datato tre mesi prima, era di Gabriella.
«Giuli, non farà scenate se glielo presenti nel modo giusto. Sai com’è Rosalinda: odia i drammi. Dille che è temporaneo e lei accetterà.»
La risposta di Giulio mi fece tremare le mani.
«Hai ragione. Ha soldi a sufficienza. L’azienda va così bene che non si accorgerà neanche dei cambiamenti. E poi evita i conflitti come la peste. Possiamo farcela.»
“Cambiamenti finanziari.”
Come se io fossi una voce di bilancio da sistemare.
Scorrii settimane di messaggi, ognuno un colpo in più. Discutono tempi, strategie: aspettare che io chiuda il contratto più grosso, così sarei stata troppo impegnata per reagire. Parlano di presentare il tutto all’improvviso, senza darmi margine per difendermi.
Gabriella aveva perfino consultato le leggi sugli inquilini, convincendosi che, come moglie di Giulio, se lui sosteneva una parente incinta in “difficoltà”, io avrei avuto pochi diritti se avessi lasciato la casa.
Un messaggio di due settimane prima mi fece gelare.
«Sto pensando alla questione del patrimonio. Di sicuro Rosalinda ha soldi di famiglia che non ha detto. Nessuno costruisce un’azienda così in fretta senza capitale iniziale. Il padre è morto anni fa. Ci deve essere stata qualche assicurazione. Farò qualche ricerca.»
Il telefono squillò, facendo vibrare l’aria. Sullo schermo apparve la foto di mia madre, con il maglione che le avevo regalato a Natale.
«Ciao, mamma.»
«Rosalinda, amore, è successa una cosa strana ieri.» Aveva quella nota di preoccupazione tipica di quando sentiva “odore di guai”. «Mi ha chiamato Giulio. Mi chiedeva dell’assicurazione di tuo padre, se c’erano soldi che non vi avevo detto. Diceva che forse avevamo investito qualcosa.»
Il mondo girò appena.
«E tu cosa gli hai detto?»
«La verità, tesoro, che l’assicurazione a malapena ha coperto le spese mediche e il funerale. Lo sai. Abbiamo usato tutto per le cure del cancro.» Fece una pausa. «Perché dopo otto anni si mette a fare domande del genere?»
«È confuso con alcune cose della pianificazione finanziaria» mentii. «Non preoccuparti.»
«Rosalinda.» Il tono si fece più tagliente. «Che cosa sta succedendo davvero? Hai una voce che non mi piace.»
Non potevo dirle che suo genero stava frugando nella nostra tragedia familiare per trovare soldi inesistenti. Non potevo dirle che era convinto che mi fossi tenuta un tesoro nascosto.
«Va tutto bene, mamma. Devo scappare, ho una riunione presto.»
Dopo aver riattaccato, tornai alle mail, ma la vista si annebbiava. Non di lacrime — quelle sarebbero arrivate dopo — ma di rabbia. Una rabbia limpida, glaciale, che rendeva tutto all’improvviso chiarissimo.
Non volevano solo la casa. Avevano intenzione di fare inventario della mia vita.
Un nuovo messaggio entrò in tempo reale. Era di Gabriella.
«I traslocatori sono confermati per mezzogiorno. Una volta che le sue cose sono nella stanza degli ospiti, parte la fase due. Papà ha detto che se lei ‘abbandona la casa coniugale’, la posizione di Giulio per la divisione dei beni è più forte.»
Divisione dei beni.
Stavano pianificando un divorzio che io neanche avevo preso in considerazione, cercando di farmi passare come quella che “abbandonava” la casa.
Feci screenshot di tutto, inviandoli alla mia mail privata con la stessa cura con cui preparo i dossier per ristrutturare un’azienda. Poi cancellai la cronologia.
Lasciai il computer e aprii il mio archivio in cerca di documenti quando, tra i fascicoli, ne trovai uno che non vedevo da mesi: la proposta di Marco Tancredi, l’imprenditore di Singapore.
Marco mi offriva da mesi una posizione che avrebbe triplicato il mio reddito: direttrice strategica per l’espansione asiatica di un grande gruppo, sede a Singapore, appartamento aziendale e autista.
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