Mi ha cacciata nella stanza degli ospiti: così ho svuotato l’attico e distrutto tutti i suoi piani

Sollevai il velluto e trovai una busta sottile: un assegno circolare da cinquantamila euro e un biglietto.

Il conto segreto di papà. Diceva sempre che era “per quando Rosalinda deciderà finalmente di volare”. Consideralo il suo modo di darti il permesso di spiccare il volo.

Otto anni dopo la sua morte, mio padre continuava a proteggermi.

Le lacrime arrivarono, silenziose. Non per Giulio, non per il matrimonio, ma per quell’uomo che da lontano aveva tenuto da parte, in segreto, un salvagente per me.

Rimisi con cura le perle nella scatola, tenendo l’assegno in mano come se scottasse. Poi lo infilai nella borsa del portatile — l’unico posto in quell’attico che sentivo ancora davvero mio — e uscii dalla stanza degli ospiti.

Trovai Gabriella in cucina, che dirigeva una squadra di catering.

«Oh, Rosalinda, perfetto che tu sia qui» trillò, senza guardarmi mentre indicava ai camerieri dove sistemare tutto. «Facciamo una cenetta tranquilla stasera. Niente di che, solo qualche collega di Giulio. Non ti dispiace, vero?»

La tavola era già apparecchiata con il servizio d’argento di mia nonna e i miei bicchieri di cristallo. Tutto studiato con cura.

«Chi viene?» chiesi, anche se la risposta non cambiava nulla.

«I Prestini, i Di Marco, quel nuovo socio che Giulio vuole impressionare. Saremo una dozzina.» Mi lanciò finalmente uno sguardo. «Vieni anche tu, vero? Magari mangi in cucina, perché in sala saremo stretti.»

La domanda era solo forma. Aveva già deciso.


Alle sette di sera il mio attico non era più casa mia: era il palcoscenico di Gabriella.

Si muoveva tra gli invitati con il vestito giusto, la pancia bene in vista, accettando complimenti sulla “sua casa”. Le mogli dei colleghi di Giulio lodavano la vista, i mobili, l’atmosfera.

«Gabriella, questo spazio è meraviglioso» esclamò la signora Prestini. «Hai un gusto incredibile.»

«Grazie» rispose lei con umiltà studiata, una mano appoggiata sulla mia credenza danese. «Abbiamo lavorato tanto per renderlo perfetto per il bambino.»

Io stavo in un angolo con un bicchiere d’acqua, guardando da lontano il furto in diretta della mia vita. Giulio si muoveva sicuro, l’aria di chi fa gli onori di casa, raccontando aneddoti, facendo ridere tutti.

A un certo punto, la signora Di Marco si avvicinò a me, con una piega di cortesia sulla bocca.

«Mi scusi, lei è con la squadra del catering?»

La stanza non si zittì completamente, ma sentii le teste girarsi verso di noi.

Giulio iniziò a muoversi nella nostra direzione, pronto a rattoppare la situazione, ma fui più veloce.

«Sono Rosalinda Moretti, la moglie di Giulio. E sono la proprietaria dell’attico.»

Le sopracciglia della signora Di Marco si sollevarono. «Oh. Mi scusi, avevo capito…»

«È un errore facile» dissi, con un filo di lama nella voce. «Al momento sto dormendo nella stanza degli ospiti, così Gabriella e Lorenzo possono prepararsi all’arrivo del loro bambino nella matrimoniale.»

Il mormorio che attraversò la sala fu quasi piacevole da ascoltare.

La signora Prestini, donna che da anni osserva le dinamiche di potere a Milano, ci mise pochi secondi a capire che qualcosa non quadrava.

«Che gesto generoso da parte sua» disse infine, ma nei suoi occhi leggevo: che caos.

Gabriella arrivò subito, sorriso tirato.

«Rosalinda è stata davvero carinissima» intervenne. «Lavora talmente tanto che alla fine la cameretta è più pratica.»

Da lì, la serata fu solo una lunga caduta.

Mi rifugiai in cucina con la scusa di controllare il servizio, in realtà per respirare. È lì che mi trovò Lorenzo, con le guance arrossate dal vino.

«Sai che sei proprio fortunata?» biascicò, appoggiato al mio frigorifero. «Gabriella voleva buttarti fuori subito, dal primo giorno. In strada.»

«Che fortuna» mormorai.

«Ma Giulio, furbo lui, ha detto “no, no, no”.» Lorenzo agitò il dito. «Ha detto che abbiamo ancora bisogno dei tuoi soldi dell’affitto per qualche settimana. Finché non arriva il suo bonus. Poi…» fece un gesto con la mano, come se gettasse qualcosa nella spazzatura. «Poi puoi andare.»

Quelle parole non furono una sorpresa; furono solo la conferma di ciò che già sapevo: stavano spremendo fino all’ultimo.

Lorenzo afferrò una bottiglia già aperta, un rosso che avevo conservato per un’occasione speciale, e si versò un altro bicchiere.

«Gabriella ha pensato a tutto, sai? Sempre. Anche prima…» Si interruppe, rendendosi conto di star dicendo troppo.

«Prima di cosa?» chiesi. Ma era già uscito, barcollando verso la sala.

Quando gli invitati se ne andarono, poco dopo la grande scena di Gabriella — una mano sul ventre, un «Oh, Giulio, credo che ci sia qualcosa che non va» recitato come un dramma — rimasi sola a sistemare piatti e bicchieri.

Giulio uscì con lei, preoccupato, lasciandomi con un «Rosalinda penserà a tutto, vero, tesoro?».

Rimasi in piedi in mezzo al salone, circondata dal disordine della festa, con una calma stranamente lucida. Era come guardare dall’esterno la demolizione di un edificio in cui avevo vissuto per anni.

Alle due di notte, seduta a tavola con i capelli ancora legati alla meglio, il telefono vibrò. Era Sara.
Mi mandò una serie di immagini: screenshot da un profilo privato di social network che Gabriella credeva “blindato”.

Foto del mio attico, di mesi prima, con didascalie tipo:

«Non vedo l’ora di crescere il nostro bambino qui.»
«Pianificando la cameretta nella nostra nuova casa.»
«Così grata che tutto stia andando al suo posto.»

Quelle date erano di molto precedenti al “sorpresone” che avevano fatto a me.

Non era un’opportunità nata al volo. Era un piano. Un furto studiato, con me nel ruolo della sciocca proprietaria.

Guardai quelle immagini fino a quando gli occhi iniziarono a bruciare.
Lorenzo, intanto, russava sul mio divano, con un calice vuoto che lasciava un alone sul tavolino — cosa che di solito mi avrebbe fatto correre a prendere uno straccio. Quella notte lo lasciai lì.

Mi misi davanti alla finestra del salone, guardai le luci di Milano e presi l’ultima decisione che mancava.

Sabato sarebbe stato il mio giorno dell’Indipendenza.

La mattina di sabato mi svegliai alle cinque, senza bisogno della sveglia.

Feci la doccia nel bagno degli ospiti, con quel getto d’acqua capriccioso che passava da bollente a freddo senza avvisare. Scelsi i vestiti con la stessa cura con cui preparo una presentazione: pantaloni neri, camicetta di seta bianca, scarpe basse comode.

Infine aprii la scatolina di velluto e mi misi al collo le perle di mia nonna. Guardandomi allo specchio della minuscola stanza, non vidi più la donna incastrata in un angolo di casa sua. Vidi qualcuno che stava per chiudere un capitolo.

Alle sette e quarantacinque ero già nell’androne del palazzo.

Attraverso le vetrate vidi tre grossi camion girare l’angolo. Il portinaio, Roberto, che in sette anni aveva visto entrare e uscire fior di gente, mi guardò con una luce nuova negli occhi.

«Giornata importante, signora?» chiese.

Lo guardai un attimo. «La più importante di tutte, Roberto» risposi. «E da oggi… meglio “signora Moretti” solo per l’amministratore. Per il resto, basta “Rosalinda”.»

Lui annuì piano, come se capisse più di quanto dicesse.

Alle otto in punto una ventina di traslocatori entrarono coordinati, con l’efficienza di una squadra militare. Il capo, Marco, venne verso di me con la cartellina in mano.

«Buongiorno, signora Moretti. Come d’accordo, iniziamo dai pezzi grandi e seguiamo i bollini che ci ha indicato» disse. Ogni mobile, ogni oggetto importante aveva un adesivo verde («da portare via») o rosso («da lasciare»). I bollini rossi erano pochissimi: la sedia da gaming di Giulio, il letto ribaltabile della stanza degli ospiti e una lampada che Gabriella aveva portato da casa sua.

«Perfetto» risposi. «Iniziate pure. Se qualcuno urla, ignoratelo. Se qualcuno vi tocca, chiamatemi.»

L’ascensore cominciò il suo continuo andirivieni: su vuoto, giù pieno di mobili.

Il divano su misura del salone fu il primo ad andarsene. Poi il tavolo da pranzo, dove il giorno prima Gabriella recitava la parte della padrona di casa. Uno dopo l’altro, i quadri, i tappeti, le librerie. Ogni pezzo che spariva era come una fune che si staccava da me.

Il rumore inevitabile del lavoro svegliò la casa.

Lorenzo apparve per primo, con i capelli arruffati e il pigiama di seta, gli occhi stretti.

«Che succede? Perché ci sono degli estranei qui?» bofonchiò, vedendo un uomo imballare la tv.

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