Mi ha cacciata nella stanza degli ospiti: così ho svuotato l’attico e distrutto tutti i suoi piani

«Sto traslocando» dissi, segnando con la penna i numeri sulla lista. «Gabriella voleva che fossi fuori entro il fine settimana, ti ricordi? Ho deciso di prenderla in parola.»

Ci mise un po’ a capire. Poi vide due uomini smontare il televisore enorme, quello che guardavano tutte le sere. Fece un passo avanti.

«Ehi! Quella è anche la nostra tv! Non puoi portarla via, la usiamo!»

«La usate» lo corressi. «È diverso da “la possedete”. L’ho comprata io, con i miei soldi. Come il divano, il tavolo, i tappeti, la macchina del caffè…»

Gli mostrai le copie delle ricevute con movimenti lenti e precisi.

Arrivò anche Gabriella, avvolta in una vestaglia elegante, la pancia in vista, gli occhi spalancati.

«Fermatevi!» gridò, alzando le braccia. «Non potete toccare niente! Rosalinda, sei impazzita?»

I traslocatori continuarono a lavorare, come concordato. Nessuna discussione. Solo movimento.

«Puoi chiamarlo come vuoi» dissi. «Questi mobili, questi elettrodomestici, questi quadri sono intestati a me. Tu e tuo fratello li avete solo usati.»

Gabriella diventò rossa.

«È furto!» puntò il dito contro di me. «Come puoi fare questo a una donna incinta?»

La frase che aveva funzionato con tutti fino a quel momento.

Inspirai piano.

«No, Gabriella. Furto è un’altra cosa. Furto è organizzare di nascosto, per sette mesi, di occupare la casa di qualcun altro. Furto è chiamare i traslocatori prima ancora di avvisare chi paga affitto, bollette e mutuo. Io mi sto solo riprendendo quello che ho comprato.»

In quel momento, mezzo addormentato e con la camicia ancora sgualcita dalla sera prima, comparve Giulio. Si fermò sulla soglia del salone quasi vuoto: i quadri imballati, il divano sparito, il tavolo smontato, la televisione già in corridoio.

«Ma che diavolo succede qui?» chiese, con una nota di panico nella voce.

«Sto facendo esattamente quello che mi hai detto tu» risposi. «Sto scegliendo: prendere la stanza degli ospiti o andarmene. Ho scelto di andarmene. Con le mie cose.»

Si massaggiò la fronte, come se gli facesse male. «Rosalinda, dobbiamo parlarne. Non puoi decidere così, da un momento all’altro.»

Lo guardai con calma.

«Giulio, voi avete deciso sette mesi fa, con Gabriella, che questa casa sarebbe diventata la vostra. Avete scritto mail, contattato avvocati, letto leggi. Io sto solo eseguendo rapidamente la mia decisione. Se qualcuno qui ha deciso da un momento all’altro, non sono io.»

Gabriella prese il braccio del fratello, cercando di trascinarlo dalla sua parte.

«Dille che non può farlo! Dille che qui viviamo tutti! Che adesso c’è un bambino di mezzo!»

Tirai fuori l’ultima busta che tenevo nella cartellina: la copia del contratto d’affitto.

«Questo» dissi, «è il contratto di locazione dell’attico. Avete insistito perché fosse solo a mio nome, per “proteggere” i beni di Giulio nel caso la mia attività andasse male. Ti ricordi, Giulio?»

Lessi lentamente.

«Intestataria: Rosalinda Moretti. Coabitanti: nessuno indicato. La società di gestione è stata già informata che lunedì comunico la disdetta. Voi avrete quarantotto ore di tempo per lasciare l’appartamento o per firmare un nuovo contratto a vostro nome.»

Guardai Giulio dritto negli occhi.

«Con il tuo reddito attuale e le carte che ho portato alla banca, non te lo concederanno.»

Giulio deglutì. «Non puoi metterci in mezzo alla strada…»

«Ah, ecco» dissi piano. «Quando proponevi di relegarmi nella stanza degli ospiti, quello non era “mettere in mezzo alla strada”. Quello era “una soluzione temporanea.”»

Gabriella iniziò a piangere, una mano premuta sul pancione.

«Come puoi? C’è un bambino! Siamo famiglia!»

La parola famiglia stavolta non mi fece vacillare.

«Famiglia è mia madre che, con una pensione minima, mi ha mandato le perle di sua madre e un assegno che mio padre aveva tenuto nascosto per me. Famiglia è chi ti protegge, non chi ti usa come bancomat.»

Marco si avvicinò con discrezione, la cartellina sotto il braccio.

«Signora Moretti, stiamo per finire con il salone. Passiamo in camera da letto.»

«Procedete» dissi. «Spiegate alla signora che qualunque cosa non abbia bollino verde resterà qui.»

Gabriella lanciò un urlo quando vide due uomini entrare nella camera matrimoniale per smontare il letto.

«Quello è il nostro letto! Qui dormiamo!»

«Ci avete dormito qualche settimana» la corressi. «Io ci ho dormito cinque anni. L’ho pagato io. È un po’ come con questo attico: l’avete abitato, ma non ne siete i proprietari.»

Giulio si passò le mani tra i capelli, sempre più disperato.

«Rosalinda, ti prego, ragioniamo. I mobili non sono importanti. Non è meglio che ne discutiamo con calma, magari con un consulente di coppia? Possiamo sistemare le cose, possiamo—»

«Puoi risparmiare il fiato» lo interruppi. «Hai organizzato con tua sorella come buttarmi fuori casa, come usare i miei soldi, come presentarmi agli altri come una donna instabile. Hai chiesto a mia madre se c’erano soldi nascosti sull’assicurazione di mio padre. Hai scritto che io odio i conflitti e che mi sarei rassegnata. Per una volta, hai sbagliato previsione.»

Sfilai dalla borsa un’ultima busta e gliela porsi.

«Questa è la copia della mail che ho inviato alla mia avvocata con tutti i vostri scambi. La chiamerà lei nei prossimi giorni. Io non avrò più bisogno di discutere con te. Solo tramite lei.»

Nel giro di tre ore, l’attico cambió completamente volto.

Il salone era vuoto, a parte la sedia da gaming di Giulio e il tappetino di Lorenzo. La cucina sembrava quella di un appartamento appena consegnato: niente macchina del caffè, niente robot da cucina, niente servizio buono. La cabina armadio, che Gabriella aveva già mentalmente riempito di body e tutine, era di nuovo un ambiente spoglio.

Marco tornò con l’inventario in mano.

«Siamo a posto, signora. Tutto ciò che ci aveva indicato è sui camion. Vuole fare un ultimo giro?»

Feci un passo indietro nel corridoio, guardando ogni stanza. L’attico sembrava più grande, ma anche freddo, come un guscio svuotato.

Guardai per l’ultima volta Giulio, appoggiato allo stipite con la camicia stropicciata, gli occhi lucidi di rabbia e paura. Gabriella, seduta sul pavimento del salone, singhiozzava. Lorenzo, col telefono in mano, sembrava più preoccupato di capire come raccontare la storia agli altri che della realtà davanti a lui.

«Un’ultima cosa» dissi. «Lunedì la società che gestisce il palazzo invierà una comunicazione ufficiale: dopo la disdetta del contratto, sarete considerati ospiti. Se non avrete un nuovo contratto o un’altra soluzione, dovrete lasciare l’appartamento. Avete voluto il fine settimana. Eccolo.»

Presi le chiavi dal mazzo. Ne staccai una e la lasciai sul mobile all’ingresso.

«Questa è per voi. Io non ne avrò più bisogno.»


L’ascensore scese piano, carico degli ultimi scatoloni. Quando le porte si aprirono nell’androne, Roberto alzò lo sguardo dal banco.

«Tutto fatto?» chiese.

«Tutto fatto» risposi.

«Allora buona fortuna, Rosalinda» disse con serietà. «Era ora.»

Uscii dal portone nel sole del mattino. La mia macchina era già stata caricata con una borsa di vestiti, i documenti importanti e la scatolina con le perle.

Il navigatore segnava la strada per Malpensa.

Il telefono non smise di vibrare per tutto il tragitto. Chiamate di Giulio, di Gabriella, di Lorenzo, perfino di Eleanora, la madre di Giulio. Li lasciai andare tutti in segreteria.

Solo quando mi sedetti nella sala d’attesa dell’aeroporto, con un bicchiere di spumante in mano e il biglietto per Singapore già nel portafoglio, mi decisi ad ascoltarli.

Il primo messaggio di Giulio aveva il tono di sempre:

«Rosalinda, questo è ridicolo. Richiamami subito, mettiamo a posto le cose come persone adulte.»

Il terzo era già diverso:

«Non puoi lasciarci senza niente. Parliamo, ti prego. Possiamo trovare un compromesso.»

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