Annuii.
Non era la famiglia che avevo immaginato.
Ma era una forma di verità.
Nel frattempo, io costruivo una nuova vita.
Aprii una piccola partita IVA e iniziai a offrire consulenze contabili nella nuova città.
All’inizio erano solo dichiarazioni, bilanci di piccole attività, sistemazioni di conti.
Poi una donna arrivò nel mio minuscolo studio, con gli occhi lucidi e una cartella strapiena di fogli.
«Credo che il mio socio mi stia rubando» disse, stringendo la borsa come se fosse un salvagente. «Ma lui dice che sono paranoica. Che non capisco niente di numeri.»
Vidi in lei una versione di me stessa.
Quella che avevo lasciato nel giardino della villa, con il viso che bruciava e il vestito sporco di erba.
«Porti qui tutto» le dissi. «Vediamo insieme.»
Mi immersi nei suoi conti come mi ero immersa in quelli della Rinaldi Costruzioni.
In pochi giorni individuai movimenti strani, prelievi, doppie fatture.
Quando le mostrai il quadro, pianse.
Non perché fosse debole, ma perché, per la prima volta, qualcuno le credeva.
In quel momento capii che qualcosa dentro di me si era trasformato.
Non ero più solo “una contabile”.
Ero una donna che sapeva leggere le ferite scritte nei numeri.
Cominciai ad occuparmi quasi solo di questo: controlli, analisi, verifiche su conti sospetti.
Arrivarono altre donne.
Alcuni uomini.
Tutti con la stessa espressione: “Forse sono io il problema. Forse mi sto inventando tutto. Puoi controllare?”.
Ogni volta che scoprivo una frode, un abuso, un controllo economico usato come arma dentro una relazione, era come se mettessi un tassello al suo posto, anche nella mia storia.
Stavo trasformando la mia caduta nel mio lavoro.
Un giorno, quando Grazia aveva pochi mesi, ricevetti una telefonata da un numero sconosciuto.
Risposi distrattamente, con lei addormentata sul petto.
«Pronto?»
«Sono io» disse una voce dall’altro capo.
Non avevo bisogno di un nome.
«Cosa vuoi, Lorenzo?»
Ci fu un silenzio.
Sentivo solo il suo respiro.
«Giulia è stata condannata oggi» disse infine. «Ha preso quindici anni. Ha ammesso una parte di quello che ha fatto. Per il resto… ha dato la colpa a tutti, come sempre.»
«Lo so» dissi. «L’ho letto.»
«Volevo solo dirti che… avevi ragione. Su tutto.»
Dei passi. Forse stava camminando in una stanza.
«E volevo dirti che mi dispiace. Per lo schiaffo. Per non averti creduto. Per averti fatto vivere quell’incubo davanti a tutti.»
«Dovrebbe dispiacerti» risposi, senza cattiveria. Solo con la stanchezza di chi ha già pianto abbastanza.
«Non passa giorno in cui non mi odi per quello che ho fatto» mormorò.
«Bene» dissi.
E lo intendevo. Non come una vendetta, ma come un minimo di giustizia interiore.
«Come sta Grazia?» chiese.
Guardai la bambina che dormiva con la bocca socchiusa.
«Sta bene. Ed è tutto quello che ti serve sapere. La vedrai quando è previsto. Come stabilito.»
«Sei felice?» aggiunse piano, dopo una pausa.
Guardai il piccolo appartamento, i fascicoli sulla scrivania, il mare oltre la finestra, mia figlia che respirava tranquilla.
«Sì» risposi. «Non nel modo che immaginavo, ma sì. Ora sì.»
«Sono contento» disse lui. E la voce gli si spezzò.
«Anch’io» risposi.
Poi chiusi la chiamata.
Non per cattiveria.
Per protezione.
Passarono i mesi.
Il divorzio fu formalizzato.
Un giorno, circa sei mesi dopo, ricevetti un pacco.
Non c’era il mittente.
Dentro, una busta e una lettera.
La carta profumava vagamente di disinfettante e inchiostro.
In alto, un intestazione impersonale, di quelle che vedi solo in certi luoghi chiusi.
Era di Giulia.
“Scrivo da un posto in cui tu, probabilmente, non metterai mai piede”, iniziava.
“L’ironia non mi sfugge. Ho passato anni a rubare soldi per mantenere uno stile di vita che pensavo mi spettasse, e ora vivo in una stanza pagata dallo Stato.”
Lessi ogni riga.
Era una lettera lunga, piena di frasi che non mi sarei mai aspettata di sentire da lei.
Non si pentiva di aver rubato.
Quello no. Lo scriveva chiaramente.
“Non sono dispiaciuta per quello che ho fatto all’azienda” diceva. “Sono dispiaciuta solo di essere stata così poco furba da farmi scoprire. Ma per te… per quello che ti ho fatto… lì sì, un pezzo di rimorso ce l’ho.”
Mi chiamava “danno collaterale”.
Una vittima di una guerra che io non sapevo neppure fosse in corso: quella tra lei e il padre, tra lei e il fratello “perfetto”, tra lei e la propria insufficienza.
“Sei entrata nella nostra famiglia convinta che l’amore bastasse” scriveva.
“Io ho deciso che eri una minaccia. Non perché fossi cattiva, ma perché eri vera. Tu amavi mio fratello senza contare. Senza calcolo. Io non ho mai saputo farlo. E questo mi ha avvelenata.”
Ammetteva di aver scavato nel mio passato.
Di aver cercato ogni mio errore, ogni sbaglio di gioventù, ogni euro non pagato in tempo, per usarlo contro di me.
Ammetteva di aver alimentato le paure di Lorenzo, goccia dopo goccia.
“Non mi aspetto che tu mi perdoni. Non lo merito. Ma volevo che tu sapessi che, alla fine, hai avuto ragione su tutto. Su di me. Sulla nostra famiglia. Sull’idea che il vero problema non eri tu, ma le nostre ferite mai guarite.”
Lessi la lettera tre volte.
Poi la piegai con calma, la portai in cucina, la appoggiai nel lavandino di metallo e le diedi fuoco.
Guardai la carta arricciarsi, annerirsi, diventare cenere.
Grazia dormiva nella stanza accanto.
Il mare rumoreggiava fuori, indifferente ai nostri drammi.
Per un attimo pensai di rispondere.
Di scriverle che sì, mi avevano rovinata.
Che ancora, a volte, avevo il riflesso di proteggermi il viso quando qualcuno alzava la voce o muoveva una mano troppo in fretta.
Che ogni gentilezza mi sembrava sospetta.
Ma poi capii che non avevo più bisogno di spiegarmi con lei.
Non era a Giulia che dovevo dimostrare di essere sopravvissuta.
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