PARTE 1
Stavo dall’altra parte del vetro, con la pioggia che scivolava sul vetro del ristorante come lacrime su un volto dimenticato.
Dentro, il ristorante “Il Salone Bianco” brillava del calore di cento candele e del luccichio dei soldi vecchi.
Io, però, non ero dentro. Non ancora.
Ero nel vicolo sul retro, le nocche bianche mentre stringevo un sacchetto di plastica che non conteneva niente, se non aria e disperazione.
Mi chiamo Caterina.
Oggi, se cerchi il mio nome su internet, trovi titoli come “La regina del mattone a Milano” oppure “La donna che non lascia nessuno senza un piatto caldo”.
Ma quella notte, cinque anni fa, io non ero nessuno.
Ero un fantasma.
Ero la donna delle pulizie che lavava i bagni nel palazzo di uffici accanto, invisibile alle giacche eleganti che mi passavano accanto senza neanche girare la testa.
Avevo appena finito un turno di quattordici ore.
La schiena urlava ad ogni passo e lo stomaco era un buco vuoto.
Stavo andando verso i cassonetti dietro ai ristoranti di lusso, sperando di trovare qualcosa — qualsiasi cosa — prima di tornare nel mio piccolo seminterrato in periferia.
Fu allora che la vidi.
Non poteva avere più di sette anni.
Era rannicchiata sotto una piccola tettoia metallica, all’ingresso di servizio, e tremava così forte che i denti le battevano per il freddo di novembre.
Era zuppa fino alle ossa, i capelli appiccicati alla fronte.
Nelle mani piccole e tremanti stringeva un bicchiere di plastica schiacciato.
Guardava le persone che passavano sul marciapiede, gli occhi grandi e supplicanti, ma nessuno la vedeva.
Come nessuno vedeva me.
Mi si spezzò il cuore.
Mi avvicinai, ignorando la pioggia gelida che mi bagnava attraverso il cappotto logoro.
«Ehi…» sussurrai, inginocchiandomi per non spaventarla. «Come ti chiami, piccola?»
«Ines…» mormorò. La sua voce era appena un filo d’aria.
La guardai negli occhi.
Erano di un grigio-azzurro incredibile, come il Po d’inverno.
Dentro c’era un dolore che nessun bambino dovrebbe conoscere.
«Dove sono i tuoi genitori, Ines?» chiesi, già temendo la risposta.
«Non ci sono…» disse piano. «Ho fame. Ho tanta fame.»
Misi la mano nel sacchetto, sperando di aver tenuto da parte un cracker, una caramella, un pezzo di qualcosa.
Ma il sacchetto era vuoto.
Provai una sensazione di inutilità così forte che mi girò la testa.
All’improvviso, la porta pesante del ristorante si spalancò.
Una luce calda si riversò nel vicolo sporco, accecandoci per un momento.
Uscì una donna.
Indossava una pelliccia che probabilmente costava più di quello che io avrei guadagnato in dieci anni.
Portava dei tacchi che ticchettavano sul pavimento come il colpo secco di un martelletto di giudice.
Era Elena, la proprietaria.
La conoscevo di fama: dura, fredda, ossessionata dall’“immagine” del suo locale.
«Fuori dai piedi!» strillò, il viso deformato dal disgusto. «Non voglio questi stracci umani vicino alla mia porta. Via!»
Ines sobbalzò, schiacciandosi contro il muro come se stesse per essere colpita.
Mi alzai in piedi.
Le gambe mi tremavano, non per il freddo, ma per una rabbia improvvisa, accecante.
«Mi scusi» dissi, con la voce che tremava ma più forte di quanto volessi. «È solo una bambina. Sta morendo di fame.»
Elena rise.
Una risata secca, senza allegria.
«Morendo di fame? Che vada in un centro d’aiuto. O meglio, che impari a lavorare. Io non faccio beneficenza per la gente di strada.»
Allora Ines fece qualcosa che ancora oggi mi perseguita.
Fece un passo avanti, la mano piccola stretta attorno al bicchiere vuoto, le lacrime che le scendevano sul viso gelato.
«Signora…» singhiozzò. «Per favore… posso solo mangiare gli avanzi? Non voglio un piatto. Posso mangiare dalla spazzatura.»
Il silenzio che seguì fu assordante.
Elena la guardò dall’alto in basso con un disprezzo puro, tagliente.
«Avanzi?» ripeté, arricciando il labbro. «Non ti rendi neanche conto di quanto sei patetica. I miei avanzi sono troppo buoni per gente come te.»
E poi, senza un attimo di esitazione, afferrò un sacchetto pieno di panini freschi che un cameriere aveva appena appoggiato vicino alla porta per buttarli.
Invece di porgerlo alla bambina affamata, camminò fino al cassonetto, lo aprì, gettò il sacchetto in mezzo allo sporco e chiuse con forza il coperchio.
«Ops» fece con un sorrisetto. «Adesso è dove deve stare.»
Si girò e rientrò, sbattendo la porta.
Sentimmo il rumore secco della serratura che si chiudeva.
Ines scoppiò in un singhiozzo e corse verso il cassonetto, cercando di arrampicarsi sulle pareti scivolose.
«No!» La presi per la vita, tirandola indietro prima che potesse toccare quella sporcizia. «Non farlo, tesoro. Ti prego.»
«Ma ho fame!» urlò. «Mi fa male qui!» e si toccò la pancia.
«Vieni con me» dissi, con le lacrime che ormai scendevano anche sul mio viso. «Non ho molto, ma ho caldo. Vieni con me.»
Quella notte, nel mio piccolo seminterrato umido, le diedi tutto quello che avevo.
Poca roba, ma tanta umanità.
Dividemmo una scatola di zuppa e qualche cracker ormai durissimo.
La avvolsi nel mio unico piumone.
La mattina dopo sapevo già che non potevo lasciarla tornare in strada.
Scoprii che era scappata da una casa-famiglia dove veniva maltrattata.
Il sistema l’aveva abbandonata.
Diventammo una squadra.
Io lavoravo di notte, lei andava a scuola di giorno e il fine settimana mi aiutava a lavare i pavimenti.
Eravamo povere, ma avevamo dignità.
Ma la vita ha il vizio di colpire proprio quando hai già preso abbastanza.
Tre mesi dopo, mi licenziarono.
La stessa Elena, che possedeva anche l’edificio dove lavorava la ditta di pulizie per cui ero assunta, mi vide “bighellonare” nel corridoio (in realtà stavo facendo una pausa di cinque minuti per chiamare Ines).
Mi accusò di aver rubato materiale d’ufficio.
Era una bugia.
Una bugia cattiva, calcolata, per liberarsi della “stracciona” che riconosceva dal vicolo.
Persi il lavoro.
La mia reputazione fu macchiata.
Quella sera mi sedetti sul bordo del letto, guardando Ines che dormiva, e pregai.
«È questa la punizione per aver cercato di aiutare qualcuno? Perché il mondo è così crudele?»
Ma a volte il destino lavora in silenzio.
Una settimana dopo, mentre raccoglievo bottiglie e lattine per pagare la bolletta della luce, vidi un anziano crollare sul marciapiede innevato, in centro.
La gente gli passava accanto, lo evitava, come se non fosse nulla. Come avevano fatto con Ines.
Non esitai.
Lasciai cadere i sacchi e corsi da lui.
Gli feci il massaggio cardiaco fino all’arrivo dell’ambulanza.
Salii con lui sull’ambulanza, tenendogli la mano, perché sembrava terrorizzato e solo.
Non sapevo che quell’uomo era Michele Argento, uno dei più grandi imprenditori immobiliari del nord Italia.
Quando si svegliò, chiese di me.
Guardò le mie mani screpolate, i miei occhi stanchi.
«Perché mi hai aiutato?» chiese. «Non sai neanche chi sono.»
«Perché nessuno dovrebbe essere lasciato solo al freddo» risposi semplicemente.
Il giorno dopo, Michele mi offrì un lavoro.
Non come donna delle pulizie, ma come assistente nel suo reparto logistica.
«Ho bisogno di qualcuno con cuore» mi disse. «Le competenze si imparano. La lealtà e l’umanità no.»
PARTE 2
Lavorai più di quanto avrei mai creduto possibile.
Ero la prima ad arrivare in ufficio e l’ultima ad andarmene.
Divoravo libri di economia, gestione, immobili.
Non avevo una laurea prestigiosa, ma avevo un dottorato in sopravvivenza.
Passarono cinque anni.
Salivo di ruolo, passo dopo passo.
Diventai socia.
Poi aprii una mia società immobiliare.
Ines cresceva.
Era al sicuro, amata, brillante.
Studiava medicina, spinta dal desiderio di curare il dolore che aveva conosciuto sulla propria pelle.
Ma io non avevo mai dimenticato quella notte.
Non avevo mai dimenticato il rumore della porta che si chiudeva o il gesto del pane buttato nella spazzatura.
Martedì scorso mi sono ritrovata di nuovo davanti a “Il Salone Bianco”.
Era identico.
Le lettere dorate sull’insegna, i cordoni di velluto, quell’aria di esclusione elegante.
Ma io non ero più la stessa.
Non indossavo un cappotto liso.
Indossavo un tailleur su misura.
Non avevo un sacchetto di plastica in mano, ma una cartella in pelle italiana.
Sono entrata.
La ragazza alla reception cercò di fermarmi.
«Ha una prenotazione?» chiese gentilmente, ma con un certo distacco.
«Sono qui per parlare con la signora Elena» dissi calma.
«La signora non riceve senza—»
«Le dica che si tratta dell’acquisto di questo edificio» la interruppi.
La ragazza impallidì e sparì a passo veloce.
Pochi minuti dopo, comparve Elena.
Sembrava più vecchia, più stanca.
La durezza era ancora disegnata attorno alla bocca, ma negli occhi c’era ansia.
Si diceva in giro che fosse piena di debiti, che la fama del locale fosse rovinata da recensioni sulla maleducazione dello staff e sull’atmosfera pesante.
Non mi riconobbe.
Perché avrebbe dovuto?
Per lei, ero sempre stata solo rumore di fondo.
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