Mia figlia di dieci anni guardò la sua sorellina appena nata e sussurrò:
«Mamma… questo bambino non lo possiamo portare a casa».
Le sue manine tremavano mentre teneva il telefono, mostrando un errore dell’ospedale così inquietante da risvegliare il peggior incubo di una madre. Due neonate, lo stesso nome… La bambina che stringevo tra le braccia era davvero mia? La verità dietro le spiegazioni confuse dell’ospedale sarebbe diventata una corsa contro il tempo, guidata dall’istinto di una madre e dalla terribile scoperta di una figlia.
Capitolo 2: I sussurri del dubbio
Daniel cercò di essere la voce della ragione, l’ancora calma nel mare in tempesta del mio panico.
«Amore, sarà sicuramente un errore. Un refuso, un problema del sistema. Succede, no?»
Mi mise un braccio attorno alle spalle, mi strinse forte, ma il calore del suo abbraccio non riusciva a sciogliere il ghiaccio che sentivo nel petto.
Un problema del sistema?
Due bambine, nate lo stesso giorno, nello stesso ospedale, con esattamente lo stesso nome e cognome? Mi sembrava troppo preciso, troppo coincidente, troppo… sbagliato.
Lily – con i suoi occhietti attenti e le sue dita velocissime sul telefono – non si fece smuovere.
«Ma mamma, nella foto… sembra lei, però… forse il naso è diverso? Non lo so. Mi dà una sensazione strana.»
Ingrandii la foto che Lily aveva trovato sull’app delle nascite dell’ospedale.
Cloe Giulia Benedetti. Nata ieri. Peso, lunghezza… tutti i dati coincidevano. Ma la bambina nella foto… Aveva i capelli leggermente più scuri? Il viso un po’ più rotondo? O ero io che, spaventata, stavo proiettando il mio terrore su una semplice immagine sullo schermo?
La mente tornò al momento del parto. La stanchezza, l’euforia, il sollievo che ti toglie il respiro. E poi… quel breve distacco.
«Dobbiamo solo portarla un attimo per i controlli di routine, signora Benedetti. È la procedura standard. Ve la riportiamo subito.»
Per quanto tempo era stata via? A me era sembrata un’eternità e, allo stesso tempo, un attimo. Quindici minuti? Trenta? Di più? Dopo il parto, il tempo diventa qualcosa di strano, sfocato.
Per una infermiera stanca, con tanti neonati da seguire, magari con nomi simili… erano minuti sufficienti per un errore impensabile?
No. Impossibile.
Gli ospedali hanno protocolli, braccialetti identificativi, impronte, controlli incrociati proprio per evitare incubi come questo. Daniel aveva ragione, doveva essere un errore informatico, un doppione creato dal sistema.
Ma il seme del dubbio era stato piantato.
E cresceva a una velocità spaventosa.
Cercai di scacciarlo. Tenni il piccolo fagotto caldo ancora più vicino a me. La mia bambina. Cloe. Inspirai il suo profumo, quel misto inconfondibile di latte e “nuovo”. Seguii con le dita la curva delicata del suo orecchio, i piccoli vortici di capelli sulla testolina. Questa era mia figlia. Io la conoscevo. La sentivo.
Giusto?
Quella notte fu la più lunga della mia vita. Daniel, esausto, si addormentò sulla poltrona scomoda accanto al mio letto. Cloe dormiva tranquilla nella culletta trasparente, un’immagine di pura innocenza. Ma il sonno, per me, non arrivava.
Ogni raggio di luce che filtrava dalla porta, ogni bip lontano di un monitor, ogni fruscio della copertina di Cloe mi facevano sobbalzare. Continuavo a rivivere il parto, il momento in cui l’avevano appoggiata sul mio petto, il periodo in cui era stata via.
Scrutavo i suoi lineamenti nella penombra, paragonandoli al ricordo un po’ sfuocato della foto sul telefono di Lily. Il mento era uguale? L’altra bambina aveva quella piccolissima fossetta che si vedeva quando Cloe sembrava sorridere nel sonno?
Mi sentivo impazzire. Era solo il dopo parto? Ormoni? Ansia esagerata?
O il mio istinto di madre mi stava urlando un avvertimento che non potevo ignorare?
Il cartellino con il nome sulla culla sembrava prendermi in giro:
Benedetti, Cloe Giulia
Sembrava così ufficiale, così sicuro. Ma la sicurezza, dentro di me, era svanita, sostituita da un’angoscia fredda e insistente.
Capitolo 3: Il muro di silenzio
La mattina dopo, la mia ansia si era trasformata in una certezza fredda: non potevo uscire da quell’ospedale senza una prova. Non una semplice rassicurazione. Una prova vera.
Daniel si svegliò e mi trovò che camminavo avanti e indietro nella stanza, la mente in piena corsa.
«Laura, amore, devi riposare.»
«Non ci riesco, Daniel! Non finché non so la verità. Devo parlare con qualcuno. Subito.»
Vide il mio sguardo, sentì la nota quasi disperata nella mia voce, e smise di fare il “calmo”.
«Va bene,» disse piano. «Va bene. Andiamo a parlare con l’infermiera.»
Trovammo la caposala al bancone principale, una donna dall’aria gentile, Marisa, che il giorno prima mi era sembrata un volto rassicurante. Ora, quel suo sorriso mi parve… studiato.
La voce mi tremava, ma cercai di mantenerla ferma.
«Marisa, ho bisogno che mi confermi una cosa. Ieri è nata qui un’altra bambina con lo stesso nome di mia figlia? Un’altra Cloe Giulia Benedetti?»
Il suo sorriso si irrigidì appena.
«Signora Benedetti, ancora congratulazioni per la sua bellissima bambina. Come può immaginare, le informazioni sui pazienti sono strettamente riservate.»
«Non le sto chiedendo dettagli privati,» insistetti, la voce un po’ più alta. «Le sto chiedendo solo se in questo ospedale, ieri, è nata un’altra bambina con lo stesso nome di mia figlia, stesso giorno. Perché mia figlia ha trovato un annuncio di nascita sull’app dell’ospedale, e ieri sera ho visto delle cullette etichettate con il nostro cognome…»
«Gli annunci di nascita sono spesso automatizzati,» mi interruppe con dolcezza, ma negli occhi le passò un lampo – disagio? Riconoscimento? «E gli errori di etichettatura, per quanto rari, possono capitare, e vengono corretti subito. Le assicuro che i nostri protocolli di identificazione sono molto rigorosi. La probabilità di uno scambio è praticamente nulla.»
Praticamente nulla.
Non zero.
«Quindi mi sta dicendo che un’altra bambina con lo stesso nome c’è davvero?»
Esitò un istante.
«Potrebbe esserci stata una duplicazione temporanea dei dati nel sistema di registrazione. Succede ogni tanto con i nomi più comuni. Ma, ripeto, le procedure fisiche di identificazione – braccialetti, impronte, controlli del personale – sono a prova di errore.»
Era come parlare con un muro. Un muro gentile, sorridente, ma pur sempre un muro.
Mi stava dando frasi da manuale, non risposte vere.
«Voglio che questo venga controllato,» dissi, più decisa. «Voglio che qualcuno verifichi fisicamente l’identità di entrambe le bambine e mi confermi che questa è davvero mia figlia.»
Il sorriso di Marisa svanì, lasciando il posto a una pazienza tesa.
«Signora Benedetti, capisco che lei sia in ansia. È normalissimo per una neomamma. Se vuole possiamo farla parlare con una delle nostre psicologhe…»
Psicologhe?
Pensava che stessi esagerando, che fossi “isterica”?
Quelle parole accesero in me nuova rabbia e paura.
«Non ho bisogno della psicologa! Ho bisogno di risposte! Controllerete o no?»
«Vedrò cosa posso fare,» rispose alla fine, rigida, girandosi verso il computer, con un atteggiamento che sapeva di chiusura. «Le farò sapere.»
Non lo fece mai.
Le ore passarono. Ogni volta che un’infermiera entrava nella stanza, il cuore mi saltava in gola, sperando in una risposta, e invece erano sempre solo controlli di routine, qualche sorriso, qualche parola vaga.
Daniel fece telefonate, cercò di parlare con qualcuno “più in alto”, ma si scontrò ovunque con frasi fredde e ripetute: «privacy», «protocolli», «non ci sono motivi di preoccupazione».
Mi sembrava che le pareti si stringessero attorno a me.
Si stavano coprendo a vicenda? Nascondevano qualcosa?
O credevano davvero che fossi solo una madre troppo agitata?
Nel pomeriggio, Lily tornò a trovarci dopo la scuola, accompagnata da una vicina. Era più silenziosa del solito, senza la sua solita energia. Si sedette sul bordo del letto, giocherellando con il telecomando del letto.
«Mamma,» sussurrò all’improvviso, avvicinandosi per non farsi sentire da Daniel, «io l’ho vista.»
Il sangue mi si gelò. «Hai visto chi, tesoro?»
«L’altra bambina. Cloe.» Gli occhi le brillavano di paura. «Quando la signora Rossi mi ha portata a prendere l’acqua, siamo passate davanti al vetro del nido. Ho guardato dentro. C’erano due cullette rosa, vicine vicine. E tutte e due… tutte e due avevano il nostro nome.»
Mi mancò il fiato.
«Sei sicura, Lily? Sicurissima?»
Annui con convinzione, il visino pallido. «E mamma? Lei è identica a Cloe. Proprio uguale. Forse i capelli un pochino più scuri… ma si somigliano tantissimo.»
Due bambine.
Due nomi uguali.
E adesso, secondo mia figlia, due faccine quasi identiche.
La scusa del “problema del sistema” ormai reggeva poco.
La storia dell’“errore di etichetta corretto in pochi minuti” mi sembrò una bugia vera e propria.
Capitolo 4: Dietro il vetro
Quella notte dormire era impossibile.
Ogni scenario possibile mi passava davanti agli occhi:
un’infermiera stanca che scambia due braccialetti, una consegna fatta di fretta, un errore grave, nascosto da qualche spiegazione generica.
La mia bambina, la mia Cloe, da qualche parte nello stesso ospedale, forse con un’altra famiglia, mentre io stringevo tra le braccia la figlia di un’altra donna.
Solo a pensarci, mi si chiudeva lo stomaco.
Daniel, sentendo crescere il mio panico, cercò di calmarmi.
«Domani chiediamo il test del DNA, Laura. Per prima cosa. Andiamo fino in fondo.»
Ma il “domani” mi sembrava lontanissimo.
L’immagine che Lily aveva descritto – due cullette una accanto all’altra, tutte e due con scritto “Benedetti, Cloe Giulia” – non mi dava pace.
Dovevo vedere con i miei occhi.
Aspettai che le luci del corridoio si abbassassero e che nel reparto maternità calasse quel silenzio ovattato della notte. Mi alzai dal letto piano, le gambe ancora deboli dopo il parto, ma con l’adrenalina che mi teneva in piedi. Mi chiusi la vestaglia sottile e uscii nel corridoio, il cuore che batteva fortissimo.
Il nido era in fondo al corridoio, illuminato da una luce morbida. Una melodia dolce, quasi un carillon, arrivava da qualche altoparlante nascosto. Mi avvicinai al grande vetro, trattenendo il respiro.
File di cullette riempivano la stanza, i neonati che dormivano tranquilli.
Scorrii con lo sguardo, in fretta, in cerca del nome che ormai mi tormentava.
E poi le vidi.
Proprio come aveva detto Lily. In un angolo, un po’ staccate dalle altre. Due cullette. Una accanto all’altra. Coperte di plaid rosa. E sulla parte davanti, due cartellini bianchi identici.
Benedetti, Cloe Giulia
Benedetti, Cloe Giulia
Mi si piegarono le gambe. Appoggiai la fronte al vetro freddo, cercando aria.
Non era un semplice errore sull’app. Non era un numerino sbagliato in un computer.
Era reale.
Due neonate.
Uno stesso nome.
Lì, davanti a me.
Quale delle due era mia?
Le fissai, disperata, cercando un dettaglio, qualsiasi cosa. Entrambe piccole, con il visetto roseo, qualche ciuffo di capelli scuri. Da quella distanza, attraverso il vetro, sembravano… identiche.
Gemelle? No, l’ospedale lo avrebbe saputo. E in cartella c’era scritto chiaramente: un solo bambino.
Mi sentii male.
Era come se il mondo avesse perso i contorni.
La bambina che dormiva nella mia stanza, poche porte più in là, era davvero mia figlia?
O era una di quelle due?
O era l’altra?
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