Mia figlia mi caccia di casa con 33 milioni, ma tre giorni dopo implora il mio perdono in lacrime

— «Ti sto chiedendo di essere pratica,» ha ribattuto. «Di salvare almeno una parte della nostra vita invece di buttare tutto in nome di un orgoglio che non ti porterà da nessuna parte.»

Ho guardato le cartelle aperte sulla scrivania di Riccardo. Le firme, i timbri, le cifre.

— «Ho bisogno di tempo per pensare,» ho detto.

— «Non c’è tanto tempo,» ha insistito. «La riunione con il pubblico ministero è fissata per domattina. L’avvocato di Marco deve dare una risposta entro stasera.»

Ho riagganciato e ho chiamato subito Rachele.

— «Quanto ci metteresti a organizzare un incontro tu con la Procura?» le ho chiesto. «Voglio parlare io per prima.»


Il giorno dopo ero seduta in una stanza anonima della Procura, davanti a una sostituta procuratrice sulla quarantina, sguardo sveglio e modi sobri. Accanto a me, l’avvocato Ferri. Sul tavolo, un registratore acceso e una pila di documenti.

— «Signora Conti,» ha esordito la procuratrice, «lei si rende conto che presentandosi spontaneamente riconosce di aver beneficiato, seppure forse inconsapevolmente, di proventi che potrebbero essere illeciti?»

— «Me ne rendo conto,» ho risposto. «Ma preferisco raccontare io la verità piuttosto che lasciare che la usino altri contro di me.»

Ho spiegato tutto. Il testamento, le falsificazioni, l’abuso, la proposta di “accordo” di Carla e degli avvocati di Marco. Ho raccontato tutto quello che sapevamo finora sull’azienda di Riccardo, senza nascondere niente.

La procuratrice mi ha ascoltata con attenzione, prendendo appunti ordinati.

— «Quindi sua figlia e suo genero pensano di poter scambiare informazioni su eventuali reati del defunto per alleggerire le proprie responsabilità?» ha riassunto, alla fine.

— «Esattamente,» ho detto. «Sono convinti che mi farò spaventare dalla possibilità di perdere tutto.»

Per la prima volta, le è scappato un mezzo sorriso.

— «E lei ha paura, signora Conti?»

Ho pensato all’hotel a una stella, al letto sfondato, alla valigia fatta in fretta.

— «Due settimane fa dormivo in una stanza triste, convinta di non avere più una casa,» ho risposto. «Oggi sono qui a raccontare a lei che mio marito forse non era chi credevo e che mia figlia ha provato a distruggermi. Direi che la paura non è più l’emozione principale.»

— «E qual è, allora?»

— «Rabbia,» ho detto. «Una rabbia limpida, che mi fa vedere finalmente le cose come sono.»

La procuratrice si è appoggiata allo schienale.

— «Signora Conti, avrebbe il coraggio di incontrare sua figlia e suo genero indossando un dispositivo di registrazione ambientale?»

In altre parole: un microfono nascosto.

Ho esitato un secondo, poi ho annuito.

— «Sì,» ho risposto. «Credo di essere pronta.»


Quella sera ero seduta nel mio salotto, con un piccolo dispositivo incollato sotto la camicetta, aspettando Giulia e Marco per quello che loro pensavano fosse un incontro per “chiudere una volta per tutte”.

Sono arrivati alle otto in punto, vestiti eleganti come sempre, come se fosse una normale cena tra parenti. Marco portava una cartella nera.

— «Elena, ti vedo bene,» ha detto lui, con un sorriso misurato. «Ti fa bene essere tornata qui.»

— «La chiarezza fa bene,» ho risposto. «Prego, accomodatevi.»

Marco ha aperto la cartella con un gesto abituato.

— «I nostri avvocati hanno predisposto una bozza d’accordo,» ha iniziato. «Prevede che tu mantenga la proprietà della casa, una somma di cinque milioni di euro in beni considerati “puliti”, e una tutela formale da eventuali conseguenze legate alle attività di Riccardo.»

“Puliti”. Quella parola mi ha fatto male.

Giulia mi guardava con gli occhi lucidi, ma cercava di restare composta.

— «La cosa importante, mamma,» ha detto, «è che così siamo tutti protetti. Il passato di papà rimane confinato e noi possiamo andare avanti.»

— «E i trentatré milioni che lui aveva destinato a me?» ho chiesto. «Che fine fanno?»

— «Mamma, quei soldi sono compromessi,» ha risposto Giulia, quasi esasperata. «È impossibile separarli dal resto delle operazioni. Insistere significa rischiare che ti sequestrino tutto.»

— «E voi, che cosa ottenete esattamente?» ho domandato.

Marco ha incrociato le mani.

— «Una chiusura ordinata della vicenda,» ha detto. «Le accuse contro Giulia verrebbero ridimensionate, io potrei continuare a lavorare, i bambini non crescerebbero con il marchio del padre in carcere. È una soluzione sensata.»

Ho inclinato la testa.

— «Marco, da quanto tempo sai delle operazioni di Riccardo?»

Ha sbattuto le palpebre.

— «Non capisco la domanda.»

— «Hai scoperto tutto mentre preparavi i documenti falsi? O lo sapevi già da anni?» ho insistito.

— «Non vedo la rilevanza…»

— «Io sì,» ho ribattuto. «Perché se sapevi e hai taciuto, sei un complice. Se hai scoperto tutto ora, sei solo molto sfortunato e molto imprudente.»

Giulia ha stretto i pugni.

— «Mamma, dove vuoi arrivare?»

— «Voglio arrivare al fatto che questa storia non è esplosa per caso,» ho detto. «L’avete studiata. Testamento falso, proposta di accordo, “scoperta” delle irregolarità di papà. Nemmeno un film è così pieno di colpi di scena tutti insieme.»

Marco si è irrigidito.
— «Questa conversazione sta prendendo una piega sbagliata. Non ti rendi conto del favore che ti stiamo facendo.»

Ho sorriso appena.

— «C’è qualcuno che la pensa diversamente,» ho detto. «Alla Direzione Distrettuale Antimafia, per esempio. La sostituta procuratrice è rimasta molto colpita quando le ho raccontato del piano che avevate preparato.»

Il colore è scomparso dai loro volti.

— «La… procuratrice?» ha sussurrato Marco.

— «Esatto,» ho risposto. «Quella con cui pensavate di sedervi domattina a dettare le condizioni. Solo che ci sono arrivata prima io.»

A quel punto, dalla porta del corridoio sono entrati due agenti della Guardia di Finanza e la procuratrice. Tutto era stato organizzato in modo che ascoltassero direttamente parole, toni, ammissioni.

— «Giulia Conti, Marco Rinaldi,» ha detto la procuratrice con voce ferma, «siete in stato di arresto per truffa aggravata ai danni di persona anziana, falso in atto pubblico e tentata estorsione.»

Giulia mi ha guardata come se non mi riconoscesse.

— «Mamma, come hai potuto?» ha sussurrato.

— «Con lo stesso coraggio con cui tu hai falsificato la firma di tuo padre,» ho risposto piano. «Solo che quello che sto facendo io è legale.»

Mentre gli agenti li ammanettavano, Marco ha tentato l’ultima carta.

— «Elena, non hai idea di cosa stai facendo,» ha detto, gli occhi stretti. «Ci sono persone, dietro gli affari di Riccardo, che non gradiranno questo tipo di attenzione da parte dello Stato. Ti stai mettendo in pericolo.»

La procuratrice si è girata verso di lui.

— «È una minaccia verso una testimone, signor Rinaldi?»

— «È un avvertimento sulla realtà dei fatti,» ha bofonchiato lui.

— «La realtà,» ha replicato lei fredda, «è che aggiungeremo anche l’ipotesi di reato di tentata intimidazione di testimone.»

Quando se li sono portati via, il silenzio nella stanza era quasi irreale.

La procuratrice si è girata verso di me.

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