Mia figlia ha scelto il compagno violento invece di me, poi mi ha chiesto aiuto di nascosto
«O tuo padre con quella banda di motociclisti di mezza età… o me. Scegli adesso.»
Il compagno di mia figlia lo disse con un mezzo sorriso, mentre lei mi porgeva, in mezzo alla strada, una busta piena di nostre foto di famiglia.
Ero appena arrivato con la mia vecchia moto, quella con cui giro con i “Lupi della Strada”, l’associazione di volontari che fa soccorso nelle emergenze. Non vedevo Giulia da tre settimane, e per noi era stranissimo: avevamo sempre preso il caffè ogni domenica mattina nello stesso bar di quartiere.
Quella volta, però, lei non riusciva nemmeno a guardarmi negli occhi. Mi spinse in mano il pacco di fotografie che riconobbi subito: quelle che teneva appese nel suo appartamento. Il suo quinto compleanno con la torta storta fatta da me. Lei sulle mie spalle a un raduno di moto quando aveva sette anni. La prima volta che le avevo fatto cambiare l’olio alla mia moto, a quindici anni.
Il suo compagno, Andrea, le passò un braccio attorno alle spalle con un gesto possessivo e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei fece un piccolo sobbalzo, quasi impercettibile, ma io la conosco. Lo vidi.
«Giulia, che succede?» chiesi, spegnendo il motore.
«Papà, per favore… vai via.» La sua voce era vuota, spenta.
Non era la mia Giulia. Non la ragazza che aveva difeso a pugni una compagna di classe presa di mira dai bulli. Non la stessa che, da adolescente, si era messa il mio vecchio giubbotto di pelle come corazza e aveva detto a chi la prendeva in giro: “Questo è di mio padre, ex vigile del fuoco. Lui non scappa mai.”
«È per Sofia?» chiesi, pensando alla mia nipotina di quattro anni. «Per quella sera che non voleva dormire? Giulia, è solo una bambina, era eccitata, ridevamo…»
«La fai diventare troppo agitata,» mi interruppe Andrea, con quel sorriso che non arrivava mai agli occhi. «I bambini hanno bisogno di regole, non di un vecchio motociclista che riempie loro la testa di sciocchezze. Giulia è d’accordo con me. Vero, amore?»
Mia figlia annuì, ma non mi guardava. Stringeva il braccio di lui come fosse un salvagente. O come se stringesse da sola le proprie catene.
Fu allora che vidi i lividi sul suo polso, nascosti male dalla manica della camicia. Segni a forma di dita, verde-violacei. E capii che non stavamo parlando di una bambina troppo vivace.
Stavamo parlando di controllo. Di isolamento. Di un uomo che stava tagliando mia figlia fuori da tutto ciò che la amava, un pezzo alla volta.
«Giulia,» dissi piano, «tu sai che puoi sempre tornare a casa. A qualsiasi ora. Senza spiegazioni.»
Andrea rise. «La sua casa è con me. E abbiamo deciso che è meglio se tu non fai più parte della nostra famiglia. Vero, Giulia?»
«…Sì,» sussurrò lei. Ma le lacrime le scendevano silenziose sulle guance.
Li guardai allontanarsi, mentre restavo fermo sul marciapiede con in mano vent’anni di ricordi. Vidi la mia unica figlia camminare accanto a un uomo che la stava spegnendo giorno dopo giorno.
Rimasi seduto sulla moto per dieci minuti buoni dopo che furono spariti. Aprii la busta con le foto e iniziai a guardarle una per una. Giulia non mi stava solo restituendo immagini: lei è sempre stata sveglia, la mia ragazza. Anche sotto controllo, anche spaventata, cercava sempre un modo per farmi capire qualcosa.
La terza foto, quella della sua maturità, era più rigida delle altre. La presi in mano, la tastai con le dita. Sembrava più spessa. Con calma, staccai il retro che qualcuno aveva incollato con troppa attenzione.
Dietro c’era un foglietto piegato, con la calligrafia di Giulia.
“Papà, lui controlla il mio telefono e segue la mia posizione. Io e Sofia abbiamo bisogno di aiuto, ma lui ci guarda sempre. Giovedì alle 14 deve andare in tribunale per una vecchia guida in stato di ebbrezza. È l’unico momento in cui saremo da sole. Ti prego.”
Mi tremavano le mani dalla rabbia. Una guida in stato di ebbrezza. Quest’uomo teneva sotto controllo ogni respiro di mia figlia, la stringeva fino a farle i lividi… e si metteva anche alla guida dopo aver bevuto, con lei e la bambina in macchina?
Infilai il foglietto nel portafoglio e accesi la moto.
Andai diretto alla sede dei Lupi della Strada. Per qualcuno siamo solo un gruppo di uomini di “una certa età” con la passione per le moto. In realtà siamo un’associazione di volontari: ex pompieri, ex infermieri, ex forze dell’ordine, gente che nelle emergenze viene chiamata per cercare persone scomparse nei boschi o portare medicine in montagna d’inverno.
Quando entrai nella sala riunioni con la faccia di chi ha visto troppo, venti volti segnati dagli anni smisero di scherzare e si fecero seri.
«Mia figlia è nei guai,» dissi soltanto.
Non ci fu bisogno di altro.
Sergio, il nostro presidente, un ex ispettore di polizia, prese subito in mano la situazione. «Lo facciamo in modo pulito e legale,» disse. «Niente colpi di testa. Documentiamo tutto, parliamo con un centro antiviolenza, costruiamo un fascicolo che non cade giù al primo soffio.»
«Io voglio solo spaccargli la faccia,» confessai. Era la verità nuda e cruda.
«E vuoi che ti arrestino davanti a tua figlia? Vuoi che la bambina perda anche il nonno?» La sua voce fu dura, ma gli occhi pieni di comprensione. «No, Marco. Tu vuoi proteggerle. Allora si fa con la testa, non con i pugni.»
Dario, che tutti chiamano “Doc” perché è un medico in pensione, da anni fa volontariato in un centro antiviolenza per donne. «Se è quello che penso io,» disse, «non è la prima e non sarà l’ultima. Questi uomini hanno sempre lo stesso copione: isolano, controllano i soldi, minacciano senza lasciare segni troppo chiari. Ma non sono invincibili.»
In poche ore, con l’aiuto di qualche conoscenza e dei canali giusti, avevamo già una traccia di Andrea: trentacinque anni, due denunce per maltrattamenti archiviate perché le donne avevano ritirato la querela, un procedimento per atti persecutori chiuso per mancanza di prove, più quella vecchia guida in stato di ebbrezza per cui ora doveva presentarsi in tribunale.
«Schema classico,» sospirò Dario. «Lui fa paura, loro tacciono. Ma se una parla, spesso le altre trovano il coraggio.»
Giovedì arrivò più in fretta di quanto volessi.
Parcheggiai la moto due isolati più in là del palazzo di Giulia. Alle 13:20 vidi Andrea uscire con l’aria di uno a cui il mondo deve qualcosa, salire sulla sua macchina lucida e partire. Guardai l’orologio. Avevo poco tempo.
Alle 14 in punto bussai alla porta dell’appartamento.
Giulia aprì piano, con il volto stanco e gli occhi rossi. «Papà, non puoi essere qui… Se lui scopre che sei venuto…»
«Ho trovato il biglietto, Giulia.»
La sua faccia si spezzò. Le gambe quasi non la reggevano. «Ha detto che se provo a cercarti, se ti mando un messaggio, prenderà Sofia e sparirà. Ha amici, conosce avvocati, dice che nessun giudice crederà a una cameriera come me.»
«Giulia.» La abbracciai forte. «Tu non sei “una cameriera”. Sei mia figlia. E non sei sola.»
«Nonnooo!»
Sofia arrivò di corsa dalla cameretta e mi si lanciò addosso alle gambe. La sollevai in braccio. Era una bambina luminosa, con gli occhi grandi uguali a quelli di Giulia alla sua età.
«Andrea dice che sei cattivo,» mi annunciò con grande serietà. «Ma tu non sei cattivo. Sei buffo. E puzzi di benzina.»
«Vai a giocare un attimo in camera, amore,» disse Giulia, guardando nervosa il telefono sul tavolo. «Papà, lui ha messo telecamere. Ha un’app con cui vede chi entra, chi esce… lo so che sembra assurdo, ma…»
«Benissimo,» risposi. «Così vedrà che non hai più paura.»
Tirai fuori il mio telefono. «Ho bisogno che tu mi racconti tutto. Ma proprio tutto. E che io possa registrare quello che dici. È per proteggerti, non per giudicarti.»
Lei scosse la testa. «Non ce la faccio. Se lo viene a sapere…»
Le presi il viso tra le mani, piano, come quando era piccola e si faceva male alle ginocchia. «Ti ricordi cosa ti ho insegnato sui prepotenti?»
Le lacrime le scesero di nuovo. «Che sono vigliacchi. Che colpiscono solo chi pensano non abbia nessuno alle spalle.»
«E cos’altro ti dicevo sempre?»
«Che… che io non sono mai sola. Che tu ci sarai sempre.»
«Esatto. Adesso fammi entrare nel tuo buio, Giulia. Da solo fa paura, ma se lo guardiamo insieme comincia già a perdere forza.»
Parlammo per venti minuti che mi sembrarono ore. Mi raccontò come lui l’aveva convinta, poco alla volta, a vedere meno le amiche, perché “nessuna di loro capisce davvero la nostra relazione”. Come l’aveva spinta a mettere il suo nome sul conto corrente “per comodità”, per poi controllare ogni spesa. Di come spegneva il sorriso di Sofia con un urlo perché rideva troppo forte. Delle spinte, delle strette ai polsi, di uno schiaffo che era diventato, nelle sue parole, “ho perso il controllo, ma tu mi provochi”.
«E Sofia?» chiesi piano.
«Non l’ha mai toccata. Ancora. Ma urla, la spaventa. Dice che è maleducata, che è colpa mia, che sono una madre incapace.» La voce le si ruppe. «Forse ha ragione lui. L’ho scelto io. L’ho fatto entrare nella nostra vita.»
«Basta.» Le presi le mani, piano, cercando di non sfiorare i lividi. «Tu sei stata presa di mira da un uomo che sa colpire dove fa più male. Non è la stessa cosa che scegliere il male. Non è colpa tua.»
Il mio telefono vibrò. Messaggio da Sergio:
“Siamo pronti. Quando uscite, scrivimi solo ‘via’. Il resto lo facciamo noi.”
«Giulia,» dissi, «ora devi preparare una borsa per te e per Sofia. Le cose essenziali. Stasera non dormirete qui.»
«Non posso! Lui ci troverà. Dirà che l’ho rapita. Dirà che l’ho manipolato, che sono pazza. Ha detto che la legge è dalla sua parte…»
«Che diritti avrebbe?» la fermai. «È il padre biologico di Sofia?»
«No. Diceva sempre che un giorno avrebbe fatto l’adozione, che così saremmo stati “una vera famiglia”. Ma non l’ha mai fatto.»
Ringraziai in silenzio, per una volta, la pigrizia di Andrea. «Allora si parte da qui. Fai la borsa. Il resto lo vediamo con chi di mestiere protegge le donne, Giulia. Non siamo soli.»
Mentre lei, con le mani tremanti, infilava vestiti in due sacche, suonò il campanello. Giulia sbiancò. «È lui…»
«No,» dissi. «Sono amici.»
Alla porta c’erano Dario e una donna sui cinquanta, con uno sguardo dolce ma fermo. «Sono Lucia,» si presentò, «lavoro in un centro antiviolenza. Marco ci ha spiegato a grandi linee. Se tu vuoi, possiamo aiutarti a trovare un posto sicuro oggi stesso.»
Giulia le fissò per qualche secondo. Poi, lentamente, annuì.
In meno di mezz’ora eravamo in strada, con due borse in mano e Sofia che stringeva il suo peluche preferito. Giulia continuava a guardarsi intorno, come se Andrea potesse saltare fuori da un momento all’altro.
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