Mia figlia mi ha lasciata in un’area di servizio, ma un ex vigile del fuoco mi ha riportata a casa
Ero seduta sul marciapiede di un’area di servizio lungo l’autostrada, sotto il sole di agosto, come una valigia dimenticata da qualcuno di fretta.
Avevo ottantanove anni e le ginocchia mi dolevano. Sentivo l’odore di benzina, di caffè bruciato e di asfalto bollente.
Mia figlia, Paola, se n’era andata da poco con la sua macchina lucida, lasciandomi lì, a più di cinquanta chilometri da casa, perché l’avevo “messa in imbarazzo” al ristorante.
La mia colpa?
Camminare troppo piano con il bastone fino al tavolo.
Fermarmi un momento sulle scale perché mi mancava il fiato.
Chiedere alla cameriera di ripetere il menù, perché l’udito non è più quello di una volta.
“Non ce la faccio più, mamma,” aveva sbottato sulla soglia del locale. “Sei diventata un peso.”
Quelle parole mi avevano fatto più male di qualsiasi dolore fisico provato in quasi nove decenni di vita.
Mi aveva aiutata a salire in macchina, poi, all’improvviso, aveva accostato in quell’area di servizio anonima lungo la superstrada.
“Ho bisogno di pensare,” aveva detto, slacciandosi la cintura. “Resta qui un attimo, torno subito.”
Non è tornata.
Dal finestrino sporco, l’avevo vista fare benzina, entrare nel bar, prendere un caffè, chiacchierare un minuto con la cassiera e poi rientrare in macchina.
I nostri sguardi si erano incrociati per un solo istante.
Poi aveva messo in moto ed era partita, lasciandomi seduta lì come un giornale vecchio.
È stato allora che ho sentito il rumore della moto.
Il rombo ha riempito l’aria, diverso dal ronzio delle auto. Mi sono voltata, asciugandomi con il dorso della mano le lacrime dagli occhi.
Era una moto grande, da turismo, piena di cromature, con borse laterali consumate e un casco legato dietro. Il guidatore indossava una vecchia giacca di pelle scura, sbiadita dal sole, e pantaloni comodi da viaggio.
Sono cresciuta in un’Italia dove ti insegnavano ad avere paura di certi uomini: quelli tatuati, con la barba lunga, in giacca di pelle. “Gente di cui diffidare,” diceva sempre mio marito. “Teppisti, casinisti, meglio starne alla larga.”
Il motociclista ha spento il motore e si è tolto il casco.
Sotto è apparso un uomo sui settant’anni, con i capelli corti, quasi bianchi, e due occhi grigi incredibilmente dolci.
Mi ha guardata un secondo. Solo un secondo. E la sua espressione è cambiata.
“Signora, tutto bene?” La sua voce era calma, attenta.
La verità è che non sapevo da dove cominciare. Come si spiega che tua figlia ti ha appena abbandonata in un’area di servizio, come un cane vecchio di cui ci si vuole liberare?
Lui ha guardato intorno, il parcheggio quasi vuoto, le pompe di benzina, il bar. Poi di nuovo me, seduta per terra vicino al mio bastone.
“E… con chi è venuta?”
“Con mia figlia,” ho sussurrato. “Ma è andata via.”
Le lacrime mi sono tornate agli occhi senza permesso.
Senza fare domande inutili, è entrato nel bar. Dopo pochi minuti è tornato con una bottiglietta d’acqua e una busta di plastica piena di ghiaccio.
“Beva, piano,” ha detto, porgendomi l’acqua. Poi ha appoggiato delicatamente il ghiaccio sulla mia fronte, dove il sole aveva picchiato più forte.
“Come si chiama, signora?”
“Teresa. Teresa Bianchi.”
“Piacere, Teresa. Io sono Gino. Gino Ferri.”
Si è inginocchiato accanto a me: ho sentito scricchiolare le sue ginocchia, come le mie. Sulla manica della giacca ho notato una vecchia toppa: un casco, una scala, una fiamma stilizzata. Vigili del fuoco.
“Chi l’ha lasciata qui, Teresa?” ha chiesto piano.
La vergogna mi stringeva la gola.
“Mia figlia.”
La mascella di Gino si è contratta, ma la voce è rimasta dolce.
“L’ha fatto apposta?”
Ho annuito. Nuove lacrime. “Dice che sono troppo lenta. Che disturbo. Che… sono un peso.”
Ha fissato la strada da cui la macchina di Paola era sparita. Quando ha girato di nuovo la testa verso di me, nei suoi occhi c’era qualcosa di duro, di fermo.
“Dove abita, Teresa?”
“In un residence per anziani, fuori Roma. Si chiama ‘Gli Ulivi’.”
“Questo posto è a più di cinquanta chilometri da qui,” ha mormorato.
“Lo so.”
Gino si è alzato in piedi con un sospiro e ha tirato fuori il telefono dalla tasca.
“Chiamo i carabinieri.”
“No!” Gli ho stretto il polso con una forza che non sapevo di avere ancora. “La prego, no. È sempre mia figlia. Non voglio che abbia problemi.”
“Signora, con tutto il rispetto,” ha detto, guardandomi negli occhi, “lasciare una persona anziana così, al sole, in un’area di servizio… è pericoloso. Non si fa. È quasi un reato.”
“Lo so,” ho sussurrato. “Ma io… voglio solo tornare a casa.”
Lui ha esitato un momento. Poi ha rimesso via il telefono. Si è voltato verso la moto, poi verso me e il mio bastone, come se stesse cercando di risolvere un problema complicato.
“Non posso lasciarla qui,” ha detto piano. “Ma non è proprio semplice riportarla a casa in moto.”
“Una volta ci sono già salita su una moto,” ho mormorato.
Le sue sopracciglia si sono sollevate. “Davvero?”
“Nel 1975. Mio figlio Marco era tornato dal servizio militare e si era comprato una moto usata con i risparmi. Voleva portare a fare un giro la sua ‘vecchia mamma’ per i colli vicino a casa.”
Ho sorriso tra le lacrime, ricordando. “Mio marito era furioso. Diceva che era pericoloso, poco dignitoso per una signora.”
“E lei è andata lo stesso?”
“Certo. Marco aveva visto cose dure in servizio. Se una moto gli dava un po’ di gioia, come avrei potuto dirgli di no?”
Gino ha abbassato lo sguardo. “Che è successo a Marco?”
“Un incidente. Tre mesi dopo.” La voce mi si è spezzata. “Un automobilista ubriaco non si è fermato allo stop. L’ha preso in pieno. Da allora ho promesso a me stessa che non avrei giudicato nessuno solo perché va in moto. Marco era il ragazzo più buono che conoscevo.”
Gino è rimasto in silenzio per qualche secondo. “Mi dispiace,” ha detto. “Si vede che gli voleva bene.”
“Era tanto tempo fa,” ho sussurrato.
“Il dolore non guarda il calendario, Teresa,” ha risposto piano.
C’era un modo in cui lo diceva… come se sapesse bene di cosa stesse parlando.
Poi si è avvicinato alla moto, ha aperto una delle borse laterali e ne ha tirato fuori un casco in più e una giacca imbottita.
“Le dico la verità, è un po’ fuori dagli schemi,” ha sospirato. “Ma se si fida di me, io posso riportarla a casa.”
Ho guardato il casco nelle sue mani rugose.
“Che cosa direbbe Marco?” ho chiesto quasi tra me e me.
Gino ha sorriso appena. “Penso che direbbe: finalmente qualcuno che si prende cura di mia madre, quando chi dovrebbe farlo la lascia per strada.”
Venticinque minuti più tardi, stringevo con tutta la forza le braccia di Gino Ferri mentre la moto correva, tranquilla, sulla corsia lenta dell’autostrada.
La giacca che mi aveva prestato mi stava enorme, il casco scivolava un po’ sulla fronte, ma non mi ero mai sentita così al sicuro da anni. Gino non superava mai i novanta, rallentava ai sorpassi, controllava gli specchietti, e a ogni semaforo si voltava un po’ per chiedere:
“Tutto bene lì dietro, Teresa?”
“Meglio di quanto sia stata da tanto tempo,” rispondevo, alzando la voce sopra al rumore del motore. E lo pensavo davvero.
Ci siamo fermati due volte. La prima per farmi riposare le gambe, la seconda in una piccola trattoria sulla via provinciale.
Lui ha insistito per pagare il pranzo.
“Lei mi sta già facendo un regalo, signora,” ha detto. “Mi sta facendo compagnia.”
“Non voglio approfittarne,” ho protestato.
“Non sta approfittando di niente,” ha ribattuto, versandomi dell’acqua nel bicchiere. “È così che dovrebbe funzionare la famiglia. Ci si prende cura l’uno dell’altro.”
Mi ha raccontato delle sue tre figlie. Una viveva in Toscana, una in Emilia, una a venti minuti da lui. Lo chiamavano tutte le settimane, gli portavano i nipoti la domenica.
“Non siamo perfetti,” ha detto, girando lo zucchero nel caffè. “Litighiamo, ci arrabbiamo. Ma non lasceremmo mai mia madre, o mio padre, da soli in un posto così. Quello che ha fatto sua figlia… non è famiglia. È egoismo.”
“Paola è stressata,” ho provato a giustificare. “Ha dovuto cambiare lavoro, suo marito ha problemi economici…”
“Teresa.” La sua voce è diventata più ferma, ma non cattiva. “Lo stress non è una scusa per abbandonare qualcuno. Mai.”
Quando finalmente siamo arrivati alla “Residenza Gli Ulivi”, il sole stava scendendo dietro le colline, colorando il cielo di arancione. Gino mi ha aiutata a scendere dalla moto con una pazienza infinita, mi ha dato il bastone, ha preso la mia borsetta e mi ha accompagnata all’ingresso.
La receptionist ha sgranato gli occhi vedendo arrivare un uomo in giacca di pelle con un’anziana aggrappata al suo braccio.
“Buonasera,” ha detto Gino con un sorriso educato. “Vorrei essere sicuro che la signora Teresa arrivi sana e salva al suo appartamento.”
“Sì, certo, certo,” ha balbettato la ragazza, ancora sorpresa.
Lui però non si è fermato alla reception. Ha insistito per accompagnarmi fino alla porta. Ha aspettato che trovassi le chiavi nella borsa, ha controllato se le luci funzionavano, ha aperto il frigo per vedere se avevo qualcosa da mangiare.
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