Erano passati due anni da quando mia moglie era morta.
Ieri, mio figlio mi ha detto che l’ha vista davanti a scuola — e che lei gli aveva detto di non andare più con lei.
Oggi sono andato a prenderlo in anticipo, e quello che ho visto ha cambiato tutto.
Erano passati due anni da quando Laura Moretti era morta in un incidente d’auto sulla strada provinciale 23, alle porte di Torino.
Su marito, Davide, aveva cercato di ricostruirsi una vita insieme al loro figlio di otto anni, Luca. Lavorava come consulente informatico da casa, andava a prendere il bambino ogni pomeriggio alla scuola primaria e provava in tutti i modi a riempire il silenzio che Laura aveva lasciato dietro di sé.
Ma ieri, quel silenzio si era rotto.
Quando Davide era rientrato dal lavoro, aveva trovato Luca seduto al tavolo della cucina, pallido e con le mani che tremavano.
«Papà», aveva detto il bambino, «oggi ho visto la mamma.»
Davide era rimasto immobile, la tazza di caffè gli era scivolata dalle dita, bagnandogli la camicia.
«Cosa hai detto?» aveva sussurrato.
Luca aveva inghiottito a fatica.
«Era vicino al cancello dopo l’intervallo. Mi ha salutato con la mano e ha detto: “Non venire più con me”. Poi è sparita dietro il parcheggio.»
Quella notte Davide non aveva chiuso occhio.
La logica gli diceva che era solo il dolore, la fantasia di un bambino che sentiva la mancanza della madre. Ma nel tono di Luca c’era qualcosa di diverso: una certezza tranquilla, senza esagerazioni. Questo lo turbava più di tutto.
Il giorno dopo, Davide salì in macchina e si diresse verso la scuola di Luca, la “Primaria Manzoni”, con un’ora di anticipo.
Parcheggiò di fronte, con il cuore che batteva forte. Guardava continuamente l’orologio, i genitori, i bambini che entravano e uscivano dal cancello, ogni volto che si avvicinava.
Alle 14:30 iniziarono a uscire i primi alunni. Davide fissava ogni angolo del cortile, ogni adulto in attesa.
E poi la vide.
Una donna, più o meno dell’altezza di Laura, con gli stessi capelli castano-ramati raccolti in una coda, lo stesso giubbotto nero che sua moglie metteva sempre in autunno.
Era ferma accanto alla recinzione del parco giochi e guardava Luca, che stava uscendo con lo zaino sulle spalle. Gli occhi di lei erano incollati al bambino.
Il respiro di Davide si fermò a metà petto.
La donna accennò un sorriso e fece un cenno con la mano, invitando Luca ad avvicinarsi.
Davide aprì di colpo lo sportello dell’auto.
«Luca, fermo!» gridò.
La donna si voltò verso di lui. Per un secondo, Davide fu sicuro che fosse Laura. Le linee del viso, il modo in cui teneva la testa, persino quel leggero piegarsi delle spalle.
Poi, all’improvviso, lei scattò.
Corse verso il parcheggio e salì su una piccola utilitaria grigia.
Davide le corse dietro quanto poté, ma l’auto partì sgommando e scomparve nel traffico della via principale.
Riuscì solo a leggere al volo la targa, che gli rimase impressa in testa come un’eco:
FF 318 ZK.
Quella sera, seduto davanti al computer, Davide continuava a ripetersi quei numeri e quelle lettere.
FF 318 ZK. FF 318 ZK.
Alla fine, si decise. Chiamò un vecchio amico che lavorava in un ufficio pubblico legato alla Motorizzazione. Gli spiegò, con voce poco ferma, che aveva bisogno di un favore, che si trattava di qualcosa che riguardava la sicurezza di suo figlio.
Dopo qualche ora, l’amico lo richiamò con il risultato.
Il nome che comparve a schermo fece gelare il sangue a Davide.
“Laura M. Rossi”.
Non Moretti. Rossi. Ma il cognome da nubile di Laura, prima del matrimonio, era proprio Rossi.
Davide non disse niente a Luca.
Il bambino aveva già fatto mesi di colloqui con uno psicologo per elaborare il lutto. Costringerlo a rivivere tutto da capo avrebbe significato riaprire ferite che a stento stavano cicatrizzando.
Ma Davide non riusciva a lasciar perdere.
Si mise allora in contatto con una sua amica dell’università, Giorgia Parretti, che ora lavorava come giornalista a Roma. Le inviò il numero di targa, il nome, tutta la storia, anche se gli sembrava assurda perfino mentre la raccontava.
«Pensi davvero che qualcuno stia fingendo di essere Laura?» chiese Giorgia al telefono, con tono incredulo ma non derisorio.
«Io non lo so», rispose Davide. «So solo che questa persona sa dove va a scuola mio figlio. E ieri gli si è avvicinata.»
Giorgia, dopo pochi secondi di silenzio, sospirò.
«Va bene. Ti aiuto come posso. Ma devi prepararti al fatto che potrebbe non esserci nulla di illegale… o potrebbe esserci molto.»
Nel giro di due giorni, grazie a contatti e ricerche, Giorgia riuscì a risalire a un indirizzo collegato a quella targa: una casa in una cittadina di provincia a un’ora da Torino.
Il documento d’identità associato al veicolo era sfocato, ma i contorni del viso, i capelli, la corporatura… erano inquietantemente familiari.
Davide non aspettò oltre. Il sabato mattina salì in macchina e guidò fino a quella cittadina. L’indirizzo lo portò davanti a una piccola casa a due piani, vicino a una vecchia linea ferroviaria ormai in disuso.
Bussò più volte. Nessuna risposta.
Sul campanello, un piccolo adesivo con le iniziali: L.M.R.
Davide sentì un nodo allo stomaco. Fece il giro della casa, cercando di sbirciare all’interno attraverso una finestra del soggiorno.
Quello che vide lo lasciò senza respiro.
Sul mobile, in bella vista, c’era una cornice. Dentro, una foto di Luca al suo ultimo compleanno, seduto accanto a Laura che rideva.
Quella foto non esisteva. Non era mai stata scattata. Eppure era lì, come se qualcuno avesse preso immagini diverse e le avesse ricomposte, o come se avesse vissuto una versione della loro vita che loro non ricordavano.
Con le mani che gli tremavano, Davide chiamò Giorgia.
«Ha le foto di mio figlio in casa sua. Ci sta osservando da tempo.»
Decisero insieme che era il momento di rivolgersi alla polizia.
Portarono tutto alla stazione di Torino, dove vennero ricevuti da un ispettore di mezza età, il signor Ferri. L’uomo ascoltò con attenzione, a tratti scettico, a tratti sinceramente preoccupato.
«Potrebbe trattarsi di un caso di persecuzione, o di furto d’identità» disse infine l’ispettore. «Non prometto miracoli, ma apriremo un fascicolo.»
Nel giro di pochi giorni, l’indagine fece emergere un dettaglio inquietante.
Il fascicolo medico di Laura ricordava che il suo corpo, gravemente ustionato dall’incidente, era stato identificato solo grazie alle cartelle dentali e a reperti clinici.
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