Mi hanno trovata che piangevo sulla panchina del parcheggio del supermercato, con le buste accanto ai piedi e il cellulare in mano.
Mio figlio mi aveva lasciata lì. Senza un passaggio. Senza una spiegazione guardandomi in faccia.
Ero seduta su quella panchina di plastica fredda da quasi tre ore, con ancora in mano il foglietto della spesa che aveva scritto lui.
«Prenditi quello che ti serve, mamma. Ti aspetto in macchina», aveva detto.
Ma quando sono uscita con due sporte piccole – tutto quello che la mia pensione minima poteva permettersi – la sua macchina non c’era più.
Il messaggio è arrivato dieci minuti dopo.
«Mamma, Giulia ha trovato un posto in una casa di riposo. Domani passano a prenderti. È ora.»
Così mio figlio ha deciso di “sistemarmi”. Con un messaggino.
Dopo che l’avevo cresciuto da sola. Dopo che avevo fatto turni infiniti in ospedale per pagargli gli studi. Dopo che avevo venduto il mio appartamento per aiutarlo con il mutuo della sua casa nuova.
Stavo ancora fissando lo schermo, le lettere sfocate dalle lacrime, quando ho sentito il rombo dei motori.
Sono arrivate sei moto rosse e nere, di quelle grosse, rumorose, che fanno girare tutti. Il parcheggio ha tremato leggermente.
Sulle giacche c’era una toppa grande: “Vecchie Fiamme – Associazione Ex Vigili del Fuoco”.
Ho cercato di diventare invisibile. A ottantadue anni, una nonna non ha voglia di problemi con gente che fa impressione.
Il più grande di loro – un uomo enorme, barba grigia fino al petto, mani grandi come pale – ha camminato dritto verso di me. Ho stretto la borsa contro il corpo.
«Signora? Tutto bene?», ha chiesto. «È da quando siamo entrati che la vediamo seduta qui.»
La sua voce era sorprendentemente dolce, calma. Niente a che vedere con l’immagine che mi ero fatta.
«Io… sto aspettando il mio passaggio», sono riuscita a dire.
«Con questo freddo? Da quanto?»
Non ho risposto. Le lacrime hanno fatto il resto.
Un altro, più giovane, si è avvicinato. «Abita qui vicino? Ha qualcuno che possiamo chiamare?»
Quando ho detto il nome della via, si sono scambiati uno sguardo che non ho capito. Uno ha sussurrato qualcosa, poi il gigante dalla barba – che avrei scoperto si chiamava Orso – si è rivolto di nuovo a me.
«Signora… direi che abbiamo una cosa da chiarire con suo figlio.»
Mi chiamo Lucia Ferri.
Ho ottantadue anni. Sono rimasta vedova sei anni fa. Mio marito, Liang, era nato in Cina; ci siamo conosciuti quando io studiavo medicina a Milano e lui lavorava in un ristorante in zona stazione. Nel 1968, sposare uno straniero non era esattamente ben visto nel nostro quartiere.
Ho perso i miei genitori per quella scelta. Ho perso amici, parenti, tranquillità. Ma non ho mai rimpianto il mio matrimonio. Abbiamo cresciuto un figlio, Marco, con tutto l’amore del mondo.
E adesso, seduta su una panchina di plastica, scoprivo che neanche lui mi voleva più.
Orso si è seduto accanto a me, piano, come per non spaventarmi. Non ha parlato subito. È rimasto lì, solo a farmi compagnia, mentre io cercavo di respirare.
Gli altri si sono messi in semicerchio davanti a noi, come un muro contro il vento che tagliava il parcheggio.
«È stato suo figlio a lasciarla qui, vero?» ha chiesto infine Orso.
«Dice che domani vado in una casa di riposo», ho sussurrato. «Hanno trovato un posto. È “meglio per tutti”, così mi ha scritto.»
«Lei vuole andarci?»
Ho abbassato gli occhi. «A quest’età… cosa voglio io non interessa più a nessuno. Sono solo un peso.»
Orso ha tirato fuori il telefono. «Come si chiama suo figlio?»
«Perché?»
«Perché nessuno abbandona la propria madre in un parcheggio, non mentre noi siamo in giro.»
«Marco Ferri. Abita alla periferia, in quella villetta nuova con il giardino e i vasi tutti uguali. Quella con il SUV grigio davanti al cancello.»
Uno dei più giovani ha sbuffato. «È quello che l’anno scorso ha chiamato i vigili perché facevamo “troppo rumore” con le moto in quella via. Diceva che disturbavamo il suo “quartiere residenziale”.»
Il volto di Orso si è indurito per un secondo. «Ah, lui.»
Poi ha guardato me. «Signora Lucia, ha mangiato oggi?»
«Stamattina. Una fetta di pane tostato.»
«E basta?»
Ho annuito, quasi vergognandomi.
Orso si è alzato. «Ragazzi, chiamate Nonna Rosa. Ditele che tra poco arriviamo con un’ospite. Lucia, le va di venire a cena da noi? Non è lontano. È l’ex caserma dei pompieri, adesso è la sede dell’associazione.»
«Non vorrei disturbare…»
«Non disturba. Sta solo accettando una mano tesa. Che è molto diverso.»
Il loro “clubhouse” non era quello che mi aspettavo.
Niente musica assordante, niente fumo, niente caos.
Era l’ex caserma dei vigili del fuoco del quartiere, trasformata in una specie di centro comunitario. In un angolo dei bambini giocavano a carte con due uomini in tuta, in un altro alcune donne preparavano tavoli lunghi con tovaglie a quadretti. Sulle pareti, foto di raccolte alimentari, feste di quartiere, interventi di volontariato durante le alluvioni.
Una donna della mia età, capelli bianchi raccolti in uno chignon disordinato, grembiule fiorito, è venuta verso di me asciugandosi le mani.
«Tu devi essere Lucia», ha detto senza aspettare conferme e mi ha abbracciata con una naturalezza disarmante. «Io sono Rosa, ma tutti mi chiamano Nonna Rosa. Orso mi ha già spiegato. Non ti preoccupare, qui non si butta via nessuno.»
Quella sera mi hanno riempito il piatto come se fossi di famiglia. Lasagne, polpette al sugo, insalata, pane caldo. Ho mangiato finché lo stomaco ha iniziato gentilmente a protestare.
Uno dopo l’altro sono venuti a presentarsi: Corvo, Ragno, Duchessa, Ruote… dietro i soprannomi c’erano elettricisti in pensione, insegnanti, ex infermieri, un ex autista di autobus. Alcuni avevano servito per decenni nei vigili del fuoco. Altri erano vedovi, divorziati, con storie difficili alle spalle.
Ma tutti, proprio tutti, mi hanno trattata come se mi conoscessero da anni.
A metà serata, un ragazzo sui trent’anni, con un tatuaggio di una fenice sul braccio, si è seduto accanto a me.
«Signora Lucia, io sono Fenice», ha detto sorridendo. «Posso farle una domanda indiscreta?»
«Dipende quanto è indiscreta.»
«Che lavoro faceva… prima di andare in pensione?»
Ho appoggiato la forchetta. «Ero cardiochirurga.»
Il rumore della sala si è abbassato all’improvviso, come se qualcuno avesse girato una manopola invisibile.
«Cardio… che?» ha chiesto Ruote.
«Chirurgo del cuore», ha chiarito Orso. «La dottoressa operava il cuore della gente.»
Ho annuito. «Sono stata la prima donna nella mia regione a guidare un reparto di cardiochirurgia. Ho operato fino a settantaquattro anni, poi le mani hanno iniziato a tremare troppo. Ho fatto finta di niente per un po’, ma sapevo che era ora di fermarmi.»
«E suo figlio vuole mandarla in casa di riposo?» ha domandato Duchessa, scuotendo la testa.
«Dice che comincio a dimenticare le cose. Che sono “pesante”. Che sua moglie non ce la fa più a gestirmi.»
«In che senso “gestirti”?» ha sbottato Nonna Rosa. «Tu sei sua madre, non una pratica in ufficio.»
Ho sospirato. «La moglie di Marco pensa che i miei racconti sul passato siano “troppo pesanti” per i bambini. Non vuole che parli di quando i miei genitori non vollero venire al mio matrimonio perché mio marito non era italiano. O di quando ci scrivevano “tornatevene al vostro paese” sulla porta, anche se io ero nata qui. O di quando in ospedale mi dicevano che una donna con un cognome “straniero” non poteva dirigere un reparto.»
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