«Io invece vorrei che le mie nipotine avessero una nonna così», ha detto piano Fenice. «Una che ha combattuto.»
In quel momento, il mio telefono ha squillato sul tavolo.
Marco.
«Dove sei?» ha esordito, senza nemmeno un “ciao”. «Oggi è venuto il pulmino della casa di riposo e non ti hanno trovata.»
«Sono con degli amici», ho risposto.
Silenzio. «Quali amici? Tu non hai amici.»
Ho sentito un leggero movimento accanto a me. Orso ha allungato la mano.
«Posso?», ha chiesto. Ho annuito e gli ho passato il cellulare.
«Buonasera, signor Ferri», ha detto Orso con tono cortese. «Sono Orso, presidente dell’associazione Vecchie Fiamme, ex vigili del fuoco del quartiere. Sua madre è con noi. È al sicuro.»
«Un’associazione? Cosa avete fatto, l’avete portata via dal supermercato?» La voce di Marco era tesa. «Io vi denuncio.»
«No, guardi», ha risposto Orso, calmo. «L’abbiamo trovata seduta su una panchina, da sola, al freddo, con due buste che non riusciva quasi a sollevare. Stava piangendo. Ci ha detto che il figlio l’aveva lasciata lì e che il giorno dopo sarebbe venuto un pulmino per portarla in una struttura. A lei sembra normale?»
«Non è affar vostro. È una questione di famiglia», ha detto Marco.
«È diventata affar nostro quando una donna di ottantadue anni è stata abbandonata nel parcheggio davanti alla nostra sede», ha ribattuto Orso, senza alzare la voce. «Ecco come andrà: oggi Lucia resta qui, mangia, dorme in un letto caldo. Domani mattina lei viene di persona e le spiega, guardandola negli occhi, perché pensa che sua madre meriti di essere lasciata in un parcheggio invece che accompagnata in casa sua.»
«Se non me la ridate, chiamo i carabinieri», ha sputato Marco.
«Faccia pure. Sarò felice di raccontare loro com’era messa quando l’abbiamo trovata. E sono sicuro che anche i giornali locali sarebbero interessati alla storia: “Ex primario di cardiochirurgia abbandonata dal figlio, salvata dai pompieri in pensione”. Suona bene, no?»
Silenzio. Poi il clic della chiamata chiusa.
Quella notte Nonna Rosa mi ha portata nel piccolo appartamento dietro l’ex caserma.
«Era di mia madre», mi ha spiegato. «Se n’è andata due anni fa. Da allora è vuoto. Io sto meglio se c’è qualcuno dentro. Mi sembra di sentire di nuovo la casa respirare.»
«Non potrei permettermelo», ho mormorato. «Prendo solo la minima, a malapena pago le bollette.»
«Ti ho chiesto soldi?», ha ribattuto lei, con un sorriso ironico. «Ti ho chiesto se ti andava di stare qui. È diverso.»
«Perché fareste tutto questo per una sconosciuta?»
Si è seduta sulla sedia di fronte a me. «Perché vent’anni fa… ero io al tuo posto. Mio marito era appena morto. I miei figli dicevano che “non avevano tempo” di occuparsi di me. Mi hanno portata in una casa di riposo dall’altra parte della città e dopo un mese non veniva più nessuno a trovarmi. Un giorno abbiamo avuto un piccolo incendio in cucina. Sono venuti i vigili del fuoco. Uno di loro era Orso. Mi ha vista, seduta in corridoio con la valigia pronta, e mi ha chiesto: “Perché hai la valigia?” Gli ho risposto: “Perché nessuno mi vuole e io non voglio stare qui a guardare il soffitto.” Il resto lo puoi immaginare. Mi hanno portata qui. Da allora, questa è casa mia. Loro, la mia famiglia.»
«Ma io non sono… dei vostri», ho obiettato. «Non ho mai fatto il pompiere, non vado in moto, non so nemmeno mettere correttamente un casco.»
«Neanche io», ha detto Nonna Rosa, stringendomi la mano. «Per far parte di una famiglia non serve la stessa uniforme. Serve il cuore giusto. E tu ce l’hai, l’hai dimostrato per una vita intera. Solo che l’hai regalato alle persone sbagliate.»
Quella notte ho dormito in un letto pulito, con le coperte profumate di lavanda, in una casa che non era la mia ma che non mi trattava come un oggetto da sistemare.
Fu la prima notte, dopo tanto tempo, in cui non mi sono sentita di troppo.
La mattina dopo, alle dieci in punto, il cancello dell’ex caserma si è aperto.
Marco è entrato per primo, giacca elegante, passo nervoso. Dietro di lui Giulia, la moglie, con l’espressione tirata. Accanto, un uomo in giacca e cravatta: il loro avvocato.
Mi hanno trovata seduta al tavolo della cucina, con una tazza di caffè e un piattino di biscotti, circondata da una decina di ex vigili del fuoco.
«Mamma», ha detto Marco, rigido. «È ora di andare.»
«Andare dove?», ho chiesto, portando la tazza alle labbra.
«Alla casa di riposo. È tutto organizzato. Abbiamo firmato ieri.»
«Io non ho firmato niente», ho fatto notare.
Giulia ha sospirato. «Lucia, sii ragionevole. Hai bisogno di assistenza. Lì ci sono infermieri, medici, personale…»
«Qui ci sono infermieri, medici e personale», l’ha interrotta Orso, indicando i presenti. «E, a differenza di alcuni, non scappano appena ci vuole un po’ di pazienza.»
L’avvocato ha schiarito la voce. «Signora Ferri, se lei non è più in grado di intendere e di volere, la legge prevede–»
Mi sono alzata in piedi lentamente, appoggiandomi allo schienale della sedia. «Ho eseguito il mio ultimo bypass a cuore aperto sei anni fa», ho detto guardandolo negli occhi. «Leggo ancora articoli medici, mi tengo aggiornata. Faccio cruciverba complicati a penna, senza cancellare. Ieri sera ho aiutato la figlia di Fenice con i compiti di matematica. Di quale parte, esattamente, dubita?»
Marco ha scosso la testa. «Ti dimentichi le cose. L’altro mese ti sei scordata del mio compleanno.»
«No, Marco. Non l’ho dimenticato. Ho scelto di non chiamarti. Sono tre anni che tu ti dimentichi del mio. Ho pensato che almeno così eravamo pari.»
Dietro di me ho sentito un paio di risatine soffocate.
Orso si è alzato. Non ha alzato la voce, ma la stanza si è fatta silenziosa.
«Signor Ferri, sia chiaro: Lucia qui ha una casa. Gratis. Ha gente che la ascolta, che la accompagna dal medico, che cucina con lei. Qui la trattiamo come una persona, non come un problema da spostare. Se è venuto per dirle che l’ama e che si è sbagliato, bene. Se è venuto a portarla via contro la sua volontà, la porta è lì.» Ha indicato il cancello. «Può uscire.»
«Non potete “tenermela”», ha protestato Marco. «È mia madre.»
«È una persona adulta, non un mobile», ha ribattuto Orso. «Lucia, vuoi andare con loro?»
Ho sentito tutti gli sguardi su di me. Ho respirato a fondo. «No.»
Giulia è arrossita. «È assurdo!», ha esclamato. «Stai scegliendo… un gruppo di pensionati con la moto… invece della tua famiglia?»
«Sto scegliendo chi mi tratta come famiglia», ho risposto. «Voi volevate solo mettermi in un angolo dove non vi davo fastidio. Qui mi chiedono come sto, mi lasciano raccontare la mia storia ai bambini, mi chiamano “dottoressa” o “nonna Lucia” con rispetto. Mi sembra una differenza sostanziale.»
«Ma cosa dirà la gente?», ha sibilato Giulia.
«Che una donna di ottantadue anni ha finalmente trovato un posto dove sentirsi a casa», ho detto con calma. «E voi, quando si saprà che mi avete lasciata al supermercato, cosa pensate che diranno?»
Marco ha abbassato lo sguardo per la prima volta.
«Mamma, per favore», ha mormorato. «Pensa a papà. Lui cosa vorrebbe?»
Ho sorriso, amaramente e teneramente insieme. «Tuo padre? Tuo padre amava le moto. Quando ci siamo sposati ne aveva una vecchia e rumorosa, e io salivo dietro anche sotto la pioggia. L’ha venduta solo per pagarti il primo anno di università. Credo che sarebbe molto contento di vedermi qui. E molto meno di sapere che mi hai lasciata su una panchina.»
«Stai facendo un errore», ha tentato ancora Marco.
«L’errore l’ho fatto anni fa», ho risposto. «Ho pensato che bastasse lavorare, sacrificarmi e aiutarti economicamente perché tu capissi cosa significa famiglia. Evidentemente non è bastato.»
Se ne sono andati in silenzio.
Marco non ha chiamato per mesi.
Giulia mi ha mandato un solo messaggio: “Da oggi non sei più invitata alle nostre ricorrenze di famiglia.”
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