Dopo un litigio, mio marito mi ha lasciata a una fermata dell’autobus, con solo la pioggia come compagnia. Accanto a me, un’anziana cieca ha sussurrato: “Fai finta di essere mia nipote, il mio autista sta arrivando. Tuo marito si pentirà di averti lasciata accanto alla donna più ricca della città.” All’epoca non avevo idea… che non stesse scherzando.
La pioggia fredda aveva già attraversato il cappotto di Emilia Conti quando suo marito, Riccardo, sbatté lo sportello dell’auto e se ne andò. Le sue parole le rimbombavano ancora nella testa: “Senza di me non sei niente.”
Rimase alla fermata del bus quasi deserta, con il mascara colato e il cuore che batteva forte. Il telefono e il portafoglio erano rimasti in macchina, quando lui era sceso urlando per l’ennesima discussione sulla sua “mancanza di ambizione”.
Una voce sottile ruppe il silenzio.
“Figlia mia, sembri un fantasma dimenticato sotto la pioggia.”
Emilia si voltò. Una signora anziana, con il bastone bianco piegato accanto alla panchina, sedeva calma sotto la tettoia. Un foulard di seta le incorniciava il viso pallido, gli occhi ciechi nascosti dietro gli occhiali scuri.
“Sto bene,” mormorò Emilia, stringendosi nelle spalle.
“No che non stai bene,” rispose dolcemente la donna. “Fai finta di essere mia nipote. Il mio autista sta arrivando.”
Prima che Emilia potesse chiederle il perché, una berlina nera di lusso si fermò davanti alla fermata. Un uomo in giacca e cravatta scese con un ombrello in mano.
“Eccola, signora Whitmore,” disse con rispetto. “E questa deve essere…?”
“Mia nipote,” lo interruppe la donna con naturalezza. “Emilia.”
Emilia rimase di sasso, sorpresa. L’uomo sorrise educatamente e aprì lo sportello dell’auto. L’anziana le cercò la mano con un gesto deciso, quasi giovanile.
“Vieni, cara,” le sussurrò. “Tuo marito si pentirà di averti lasciata accanto alla donna più ricca della città.”
Emilia pensò fosse una battuta strana, il capriccio di una vecchia eccentrica, ma ubbidì.
Dentro l’auto calda, la signora Whitmore ordinò all’autista di portarle a casa, sulle colline che dominano Genova.
Quando arrivarono, Emilia aveva già scoperto che la donna si chiamava Eleonora Whitmore, vedova di un grande banchiere, conosciuta in città per le sue opere di beneficenza e per una fondazione che aiutava chi era in difficoltà.
Eleonora congedò la servitù con un gesto della mano.
“Puoi restare qui stanotte,” disse semplicemente. “Domattina parleremo.”
Emilia guardò attonita i pavimenti di marmo e i ritratti ad olio alle pareti.
“Signora Whitmore, non posso…”
“Puoi,” la interruppe Eleonora. “E lo farai. Nessuno lascia la famiglia sotto la pioggia.”
Quella notte, mentre Emilia si stendeva su un letto con lenzuola di seta, si rese conto che Eleonora non stava affatto scherzando.
La luce del mattino filtrava dalle grandi finestre quando Emilia si svegliò. Sul tavolino c’era un vassoio con la colazione e un biglietto scritto a mano:
“Ti aspetto in giardino alle nove. — E.W.”
Eleonora era già seduta tra le siepi ben curate quando Emilia arrivò. Le accennò di sedersi sulla panchina accanto a lei.
“Mi ricordi mia nipote,” cominciò Eleonora. “È morta giovane… troppo cuore, troppo poca protezione.”
Emilia restò in silenzio, senza sapere cosa dire.
Eleonora rivolse il viso verso il sole.
“Dimmi, cosa pensi di fare adesso?”
Emilia esitò. “Non lo so. Riccardo si è portato via tutto. Non ho un posto dove andare.”
La donna anziana annuì lentamente. “Allora comincia da qui. Lavora per me.”
Emilia sbatté le palpebre. “Lavorare per lei? Facendo cosa?”
“Imparando,” rispose Eleonora, semplice. “Non assumo colf. Io faccio da mentore a chi è sopravvissuto.”
Nei giorni e nelle settimane seguenti, Emilia divenne l’assistente di Eleonora: le leggeva libri e documenti, gestiva le sue telefonate, teneva i contatti con le associazioni benefiche. Il lavoro era impegnativo, ma Eleonora era paziente, lucida e, negli affari, sorprendentemente dura. Le insegnò a trattare, a investire, a rispettarsi.
“La gente ti sottovaluterà,” disse un pomeriggio. “Lasciali fare. Poi fai in modo che se ne pentano.”
L’avvocato di Eleonora, Davide Leoni, cominciò a notare la rapidità con cui Emilia imparava.
“Hai la testa per la finanza,” commentò. “Eleonora ti sta preparando per qualcosa.”
Emilia rise, cercando di sdrammatizzare, ma lui non aveva tutti i torti. Eleonora la trattava meno come una dipendente e più come un’erede in formazione.
Tre mesi dopo, Riccardo si presentò alla villa di Eleonora, ben rasato e con un sorriso teso.
“Emilia! Ti ho cercata ovunque.”
Eleonora era seduta in terrazza quando lui arrivò. “Ah, il marito che lascia la moglie sotto la pioggia,” disse con voce ferma. “Che immagine poetica.”
Il sorriso di Riccardo si incrinò. “Ho fatto uno sbaglio. Voglio solo parlare con mia moglie.”
“Intendi la mia assistente,” ribatté Eleonora. “È occupata.”
Emilia uscì in terrazza, calma e composta, diversa dalla donna tremante alla fermata dell’autobus.
“Che cosa vuoi, Riccardo?”
“Ricominciare,” supplicò lui. “Sono cambiato.”
Lei lo fissò negli occhi, con uno sguardo fermo, difficile da leggere.
“Io sì che sono cambiata,” disse piano.
Quando lui provò ad avvicinarsi, l’autista di Eleonora fece un passo avanti. “Basta così, signore.”
L’espressione di Riccardo si fece dura. “Ti credi migliore di me adesso?”
“No,” rispose Emilia, quasi sottovoce. “Ma finalmente so quanto valgo.”
Eleonora sorrise appena mentre lui se ne andava furioso.
“Te l’avevo detto che se ne sarebbe pentito,” mormorò.
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