«Preferisco baciare il mio cane che baciare te.»
L’ha detto lì, in mezzo al salotto di un attico pieno di gente che rideva, con la musica bassa e le luci soffuse.
Io mi ero appena avvicinata, durante un lento, e avevo solo provato ad avvicinare le labbra alle sue.
Luca si è scostato di colpo, come se fossi qualcosa da evitare, e ha detto quella frase ad alta voce, chiara, perché tutti potessero sentirla.
Qualcuno ha sputato fuori il prosecco dal ridere.
Qualcun altro ha fischiato, compiaciuto.
Poi ha aggiunto, guardandomi dall’alto in basso:
«Tu non sei all’altezza dei miei standard. Stai alla larga da me.»
La risata generale è diventata più forte, più cattiva.
Sembrava non finire mai.
Io ho sorriso.
Un sorriso educato, come se nulla mi avesse ferito.
Ma dentro di me qualcosa si è spezzato… e qualcos’altro si è acceso.
Quando finalmente ho parlato, la stanza è diventata silenziosa.
Alcune parole bruciano.
Le mie hanno iniziato a tagliare.
Qualche ora prima ero davanti allo specchio della nostra camera, in un appartamento elegante in centro città. Milano vista dall’alto, luci che sembrano stelle appoggiate a terra.
Stavo sistemando un abito lungo verde smeraldo che costava più di una mensilità di molte infermiere del mio reparto.
Era bello, sì, ma addosso a me sembrava una divisa.
Come se stessi interpretando un ruolo in una recita che non riconoscevo più.
Dietro di me, Luca controllava per l’ennesima volta il colletto della camicia davanti allo specchio.
«Ricordati, Chiara,» ripeteva con quella voce calma che usava quando in realtà voleva comandare, «se qualcuno ti chiede che lavoro fai, dì solo che lavori in ospedale.»
Io ho tirato su la zip del vestito senza guardarlo.
Sapevo già cosa sarebbe venuto dopo.
«Non metterti a spiegare che dirigi l’unità di cardiochirurgia. A queste cene non interessa a nessuno il sangue, le operazioni, le malattie. Li metti a disagio.»
Cinque anni fa si vantava con tutti: «Ho sposato una chirurga, una delle migliori.»
Ora il mio lavoro era diventato un segreto scomodo, qualcosa da tenere al minimo, come un rumore di fondo.
«Quindi “lavori in ospedale”,» ripeté, venendomi alle spalle per sistemare insignificanti pieghe del tessuto. «Niente dettagli.»
Avrei voluto dirgli: Luca, oggi ho salvato la vita a un ragazzo di dodici anni.
Avrei voluto raccontargli del cuore aperto sul tavolo operatorio, della valvola aggiustata, del monitor che torna regolare dopo minuti che durano ore.
Provai comunque.
«Oggi abbiamo operato un bambino,» sussurrai, guardando il mio riflesso. «Aveva una malformazione alla valvola mitrale e…»
«Brava, tesoro,» mi interruppe senza alzare lo sguardo dal telefono. «Ma alle persone di stasera non interessa. Parla del tempo, dei viaggi, magari di quel nuovo ristorante dove fanno il pesce crudo che va tanto di moda.»
Il tempo.
Io apro il torace delle persone, tengo il loro cuore tra le mani, firmo responsabilità che fanno tremare le ginocchia…
e lui voleva che parlassi delle nuvole e del meteo.
Il mio cellulare vibrò: un messaggio dal mio team.
“Il bambino è stabile, chiede già quando potrà tornare a giocare a calcio.”
Sua madre aveva pianto quando le avevo detto che l’intervento era andato bene.
Quelle lacrime, per me, valevano più di tutte le cene di rappresentanza.
Ma Luca aveva le sue regole.
«Ah, e un’altra cosa,» aggiunse finalmente guardandomi nello specchio, senza guardarmi davvero. «Marco ti chiederà del prossimo evento di beneficenza. Gli ho detto che prenderemo un tavolo. Sono cinquanta mila euro, ma è importante per l’immagine.»
Cinquantamila euro per farsi vedere.
Nel frattempo, il reparto di pediatria del mio ospedale stentava a comprarsi un nuovo monitor perché “troppo costoso”.
Io avevo già in mente di fare una donazione personale.
Lui aveva già deciso dove sarebbero finiti i nostri soldi.
«Pronta?» chiese, ma era una domanda finta. Era già sulla porta.
In ascensore, mentre scendevamo nel garage, ripassava nomi e ruoli.
«Allora, il signor Bianchi si occupa di fusioni e acquisizioni, non di private equity, non sbagliare come l’altra volta. Sua moglie si chiama Patrizia, non Paola. E stai lontana da Giulia se ha bevuto troppo, comincia a parlare dei problemi del suo matrimonio.»
Annuii ai punti giusti, come un’attrice che conosce il copione.
Intanto io pensavo alla mamma del bambino operato quella mattina, alle sue mani che stringevano le mie, al suo «Dio la benedica» sussurrato con la voce rotta.
Quella era la vita vera.
Quella corsa verso l’attico, invece, era teatro.
Il parcheggiatore prese l’auto con gesti veloci.
Luca mi posò la mano sulla schiena, non per affetto, ma per posizionarmi: leggermente un passo dietro di lui, come sempre. Non troppo lontana, ma nemmeno al suo fianco.
«Sorridi di più stasera,» mi mormorò, mentre aspettavamo l’ascensore per l’ultimo piano. «All’ultima cena sembravi infelice. Sono persone importanti, Chiara. La mia carriera dipende da questi rapporti.»
La sua carriera.
Non la nostra. Non più.
Le porte dell’ascensore si aprirono direttamente nel salone dell’attico di Marco.
Vetro ovunque, vista sulla città illuminata, tavoli di marmo, bottiglie costose allineate come soldati.
Luca si trasformò all’istante.
Spalle dritte, sorriso acceso, tono di voce sicuro. L’uomo affascinante che piaceva a tutti.
«Marco!» lo chiamò lasciando la mia schiena per stringere mani, ridere, abbracciare.
«Luca. E… Chiara.»
Il mio nome venne aggiunto come nota a margine.
Giulia arrivò con due flute in mano e il solito bacio finto sulle guance.
«Chiara, sei splendida. Che vestito meraviglioso. Luca ha davvero gusto.»
Nemmeno il mio modo di vestire era più merito mio.
Ero diventata una vetrina per le sue scelte.
«Grazie,» dissi con quel tono neutro che avevo imparato.
Troppa energia attirava domande.
Troppa freddezza diventava “problema”.
Quando Marco chiese: «E tu, Chiara, come stai? Che si dice al lavoro?»
Luca fu più veloce di me.
«Chiara lavora in ospedale,» rispose con naturalezza. «È sempre impegnata, vero, amore?»
Lavora in ospedale.
Non “dirige l’unità di cardiochirurgia”.
Non “oggi ha salvato un bambino”.
Solo… lavora.
Sorrisi e bevvi un sorso di prosecco che non volevo davvero.
Guardavo le persone intorno a me muoversi come in una danza studiata: risate dosate, complimenti calcolati, strette di mano che sapevano di accordi mai detti apertamente.
E in quel momento, ho deciso che quella sera avrei provato un’ultima volta a raggiungerlo.
Una sola.
O lo ritrovavo… o avrei finalmente smesso di rianimare un matrimonio già morto.
Qualcuno abbassò le luci.
La musica cambiò: via il jazz da aperitivo, arrivò un lento morbido, quasi romantico.
Marco prese Giulia per mano e la trascinò in mezzo al salone.
Un altro collega, Stefano, avvolse le braccia attorno alle spalle di Elisa, che appoggiò la testa sul suo petto.
Le coppie oscillavano piano, sicure, come se quel contatto fosse naturale.
Guardai il mio bicchiere vuoto, lo posai sul vassoio di un cameriere e ne presi uno pieno.
Mandai giù troppo velocemente. Le bollicine bruciarono un po’, ma mi aiutarono a prendere fiato.
Luca era dall’altra parte della stanza, a discutere con Riccardo e un cliente.
Parlava con le mani, sorrideva, annuivano tutti insieme, sincronizzati come se ci fosse un copione invisibile.
Partì una melodia che mi ricordò una canzone del nostro matrimonio.
Non era la stessa, ma bastò a farmi venire in mente lui che mi prendeva per mano a notte fonda, solo noi due sulla pista, senza scarpe, ubriacati di felicità.
«Avremo una vita bellissima,» mi aveva sussurrato allora. «Figli, una casa con giardino, la domenica i giornali sul tavolo e il caffè sul balcone. Avremo tutto, Chiara.»
Quel ricordo mi spinse verso di lui prima ancora che potessi fermarmi.
Gli appoggiai le dita sul gomito. Il tessuto della giacca era liscio, caro, freddo.
La conversazione si interruppe di colpo.
Riccardo mi guardò con fastidio, il cliente con curiosità.
Il labbro di Luca si irrigidì: avevo “interrotto”.
«Balla con me,» dissi.
La voce mi uscì più bassa, più fragile di come la sentivo in testa.
I suoi occhi si mossero rapidamente verso i colleghi, facendo i conti dei pro e dei contro.
Rifiutare davanti a loro?
Accettare e perdere il filo della discussione?
«Scusatemi un attimo, doveri coniugali,» disse con un sorriso studiato.
Ridevano tutti. Io no.
Mi mise la mano in vita.
Era un gesto vuoto, di facciata.
La distanza tra i nostri corpi era calcolata: abbastanza vicini da sembrare una coppia, abbastanza lontani da non sentire niente.
Iniziammo a muoverci.
Non era un ballo, era un esercizio.
Come seguire i passi durante una lezione, senza anima.
«Oggi abbiamo avuto una riunione importante sul nuovo investimento,» mormorò guardando sopra la mia spalla.
La sua attenzione era altrove, a misurare chi parlava con chi, chi stringeva mani, chi gli stava sfuggendo.
«Sono contenta per te,» dissi piano.
Provai a tirarlo solo un po’ più vicino, a ritrovare una briciola del ragazzo che mi portava il caffè alle sette del mattino quando uscivo dalla sala operatoria.
Il suo corpo resistette.
Era come abbracciare una porta chiusa.
Intorno a noi le altre coppie ridevano, sussurravano, si scambiavano baci veloci sulle guance.
Giulia buttò la testa indietro ridendo a qualcosa che Marco le disse all’orecchio.
Elisa e Stefano quasi non si muovevano più, si tenevano solo stretti.
Io li guardavo e sentivo un vuoto crescermi in petto.
Il vino, la musica e il ricordo di come eravamo stati una volta crearono un attimo pericoloso.
Magari se lo bacio, si ricorda di noi, pensai. Magari si scioglie un po’ questa armatura.
Mi avvicinai appena.
Non era un bacio teatrale, non volevo fare scena.
Solo un bacio normale, quello che si danno due persone sposate quando la musica è lenta e tutti sembrano un po’ più belli.
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